1.4 La Restaurazione in Europa
Sul piano politico e istituzionale, la Restaurazione ebbe caratteri e intensità diverse a seconda dei paesi. Ovunque, però, si ebbe un assestamento degli equilibri interni in senso conservatore. Ovunque il clima politico risentì più o meno pesantemente del ritorno in auge degli ideali tradizionalisti e legittimisti e della rinnovata alleanza fra il potere temporale dei sovrani e il potere religioso delle Chiese.
Anche in Gran Bretagna - il paese in cui le istituzioni parlamentari erano nate e in cui non erano state messe in discussione nemmeno ai tempi delle guerre con la Francia - gli anni successivi al 1815 videro la schiacciante prevalenza dell'ala destra del partito conservatore: quella che aveva la sua base nell'aristocrazia terriera e nell'alto clero anglicano e che traeva ora nuovo prestigio dal fatto di aver guidato la lotta vittoriosa contro Napoleone. Il dominio della destra tory si tradusse in una politica tutta rivolta a favorire gli interessi della grande proprietà terriera, attraverso l'imposizione di un forte dazio di importazione sul grano, che manteneva elevati i prezzi interni. Questa politica sacrificava gli interessi dell'industria esportatrice (che pure costituiva ormai la vera base della potenza economica britannica) e inaspriva le tensioni sociali, spingendo in alto il costo della vita. Si ebbero infatti in questi anni numerose agitazioni operaie, sempre duramente represse. L'episodio più grave si verificò a Manchester nell'agosto 1819, quando un reparto di ussari a cavallo sciolse con la forza un comizio operaio nella piazza di Saint Peter, provocando undici morti. L'eccidio passò alla storia come battaglia di Peterloo, per ironica analogia con Waterloo, dove gli ussari si erano particolarmente distinti. Una parziale correzione di rotta si ebbe nei primi anni '20, quando in seno allo stesso partito conservatore si venne affermando un'ala liberal-moderata che faceva capo a George Canning, diventato ministro degli Esteri nel '22 al posto di Castlereagh.
Nei più importanti Stati dell'Europa continentale, che non avevano mai avuto esperienza di regimi rappresentativi, la Restaurazione si risolse nella conferma del vecchio assolutismo settecentesco - temperato da qualche iniziativa riformatrice, ma depurato dalla componente laica e anticlericale - e nel blocco di ogni evoluzione in senso liberale. In Prussia, il re Federico Guglielmo III non diede alcun seguito alle promesse di costituzione fatte nel corso della guerra con la Francia e continuò a governare con metodi autoritari, appoggiandosi all'aristocrazia terriera e militare (i cosiddetti Junker). L'Impero asburgico, sotto il regno di Francesco I, vide rafforzata la sua struttura centralistica, che si reggeva soprattutto su una capillare ed efficiente organizzazione burocratico-poliziesca. Anche nell'Impero russo - certo il più arretrato fra i grandi Stati europei sul piano dello sviluppo economico e civile - non vi furono mutamenti sostanziali. E le vaghe aperture liberaleggianti dello zar - che si espressero nella concessione di una limitata autonomia al Regno di Polonia - si rivelarono presto inconsistenti ed effimere.
Fra i paesi che avevano sperimentato, direttamente o indirettamente, la dominazione napoleonica, la Restaurazione assunse forme particolarmente dure in Spagna, dove il re Ferdinando VII si affrettò ad abrogare, contrariamente a quanto promesso in precedenza, la "costituzione di Cadice" del 1812 e mise in atto una durissima repressione nei confronti delle correnti liberali. Regimi a base parzialmente rappresentativa (con parlamenti eletti a suffragio ristretto e dotati di poteri assai limitati) furono invece mantenuti nel Regno dei Paesi Bassi e in alcuni Stati della Confederazione germanica (Sassonia, Baviera, Baden-Württemberg), oltre che in Svezia, Danimarca e Svizzera.
Ma il caso più significativo di Restaurazione "morbida" fu certamente quello della Francia che, così com'era stata il centro propulsore di tutte le esperienze rivoluzionarie, costituiva adesso il principale banco di prova del nuovo equilibrio conservatore europeo. Appena insediato sul trono, nel giugno 1814, il nuovo re Luigi XVIII promulgò infatti una costituzione (ma si preferì chiamarla col nome generico di carta) che proclamava l'uguaglianza di tutti i francesi davanti alla legge, garantiva - pur con qualche limitazione - le libertà fondamentali (di opinione, di stampa e di culto) e prevedeva un Parlamento bicamerale, composto da una Camera dei pari di nomina regia e da una Camera dei deputati elettiva. La Carta era presentata come una graziosa concessione del re ai suoi sudditi (si parlò infatti di Charte octroyée, ossia elargita). E il suo contenuto liberale era ulteriormente limitato sia dagli scarsi poteri di cui godeva la Camera dei deputati, sia dal carattere restrittivo della legge elettorale, che legava il diritto di voto all'età (30 anni) e al censo (ossia al livello di reddito, calcolato in base alle tasse pagate): in pratica godevano di tale diritto solo i nobili e i ricchi, non più di centomila cittadini maschi su un totale di quasi trenta milioni di abitanti.
Nonostante ciò, il fatto stesso che nella Francia "restaurata" potesse stabilirsi uno dei pochi regimi costituzionali esistenti in Europa fu un segno di indubbia intelligenza politica da parte di Luigi XVIII e dei suoi collaboratori (ma anche delle potenze vincitrici che favorirono questa soluzione). Altre prove di lungimiranza il re le fornì mantenendo in vita molte delle più importanti innovazioni del periodo napoleonico (dal codice civile all'ordinamento amministrativo, dal sistema scolastico statale al registro di stato civile), garantendo l'inviolabilità di tutte le proprietà vecchie e nuove (comprese dunque quelle derivate dall'acquisto di terre confiscate alla nobiltà e al clero) e rinunciando a qualsiasi misura punitiva nei confronti dei sostenitori del passato regime.
Una simile moderazione scontentava naturalmente i legittimisti più intransigenti, soprattutto quelli emigrati che, rientrati in patria, si aspettavano di rientrare pienamente in possesso dei loro beni e di riprendere gli antichi usi feudali: in generale, tutti coloro che sognavano il ritorno puro e semplice all'ancien régime e che, con un'espressione divenuta proverbiale, furono definiti "più realisti del re". Forti soprattutto nelle campagne del Sud, gli ultrarealisti (o ultras) si organizzarono come un vero e proprio partito, ma agirono anche attraverso associazioni segrete, come i Cavalieri della fede. Furono loro a scatenare, subito dopo i cento giorni, una vera e propria ondata di terrore bianco contro ex giacobini e bonapartisti e a imporre al re una parziale epurazione tra i funzionari pubblici. Nelle elezioni dell'agosto 1815, gli ultras riuscirono a conquistare una larga maggioranza e crearono non pochi intralci all'indirizzo moderato del re, che fu così indotto a sciogliere la Camera dopo pochi mesi. Nelle successive elezioni del 1816, gli ultras furono fortemente ridimensionati. Prevalsero i costituzionali moderati, che contavano tra le loro file numerosi intellettuali, come il filosofo Victor Cousin e lo storico François Guizot. E fece la sua comparsa un'opposizione di sinistra che si batteva per l'allargamento delle libertà politiche e per un'interpretazione più avanzata della Carta.
Questo equilibrio durò fino all'inizio degli anni '20. La ripresa dell'attività rivoluzionaria ad opera dei gruppi clandestini di ispirazione repubblicana e giacobina che si manifestò allora in Francia e in altri paesi europei mise in crisi il gruppo dirigente moderato e restituì spazio alla destra legittimista. Questa segnò un punto decisivo a suo favore nel 1824, con la morte di Luigi XVIII e l'avvento al trono del fratello Carlo X, capo riconosciuto degli ultras. Vedremo però in un successivo capitolo come, al termine di un decennio di duri contrasti politici, il tentativo di restringere fino ad annullarle le libertà garantite dalla Carta avrebbe finito col provocare la caduta del re e della stessa dinastia borbonica.
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