36.6 Il terrorismo e la solidarietà nazionale
L'esito delle elezioni del giugno '76 lasciava aperto il problema di una nuova formula di governo. Visto che i socialisti non erano disponibili a una riedizione del centro-sinistra e che non esistevano i margini (numerici e politici) per un ritorno al centrismo, l'unica soluzione praticabile stava in un coinvolgimento del Pci nella maggioranza. Si giunse così, in agosto, alla costituzione di un governo monocolore democristiano guidato da
Giulio Andreotti, che ottenne l'astensione in Parlamento di tutti gli altri partiti esclusi il Msi e i radicali. Non era ancora il "governo di emergenza" con la partecipazione di tutti i partiti costituzionali, invocato dalle sinistre, ma era pur sempre una risposta unitaria della classe politica a una situazione resa sempre più preoccupante dalla crisi economica e soprattutto dal dilatarsi del fenomeno terrorista, ora non più solo di destra, ma anche di sinistra. Un fenomeno che, nelle sue prime manifestazioni, fu giudicato come un fatto episodico e sostanzialmente estraneo al tessuto civile del paese, ma che doveva restare invece per molti anni un elemento permanente e disgregante della vita politica italiana.
Opposti nella loro matrice ideologica, i due terrorismi, quello nero e quello rosso, erano diversi anche nel modo di operare. Il tratto distintivo del terrorismo di destra fu il ricorso ad attentati dinamitardi in luoghi pubblici, che provocavano stragi indiscriminate, col probabile scopo di diffondere il panico nel paese e di orientarlo verso soluzioni autoritarie. Dopo la strage di piazza Fontana, vi furono le bombe in piazza della Loggia a Brescia, nel maggio '74, e quelle sul treno Italicus nell'agosto dello stesso anno, l'attentato alla stazione di Bologna (con oltre 80 morti) nell'agosto '80 e una nuova esplosione su un treno, nella galleria "direttissima" tra Firenze e Bologna, nel dicembre '84. La certezza delle forze politiche e dell'opinione pubblica di sinistra nell'attribuire le stragi alla destra eversiva non fu sempre confortata dai risultati delle indagini e dei processi: a più di vent'anni da piazza Fontana, tutti i più gravi attentati rimanevano ancora impuniti. Al potere politico spettava la responsabilità di non aver saputo indirizzare l'azione dei servizi di sicurezza e di non aver posto rimedio a una loro inefficienza talvolta accompagnata da vere e proprie deviazioni.
L'immagine di uno Stato debole e minato dalla corruzione politica, la presenza di un terrorismo di destra e la psicosi di un colpo di Stato (che era allora presente in tutta la sinistra e alimentava in alcuni settori la giustificazione di una risposta violenta) furono tra i fattori che contribuirono alla nascita del terrorismo di sinistra. In realtà, il principio della lotta armata era da tempo un elemento portante di tutte le ideologie estremiste e rivoluzionarie che il movimento del '68 aveva contribuito a mitizzare e a divulgare. Ma allora per la prima volta - anche per la suggestione dei modelli della guerriglia latino-americana e del terrorismo palestinese - si formarono nuclei organizzati pronti a mettere in pratica quella che fin allora era rimasta solo una prospettiva teorica. Inoltre, la lotta armata e la clandestinità apparvero a molti come una scelta di vita totale, un'esperienza eccezionale di lotta. Per i terroristi - in gran parte giovani o giovanissimi provenienti per lo più dalla militanza nelle file del movimento studentesco, dei gruppi extraparlamentari e degli stessi partiti della sinistra storica - l'azione armata si presentava come un atto esemplare, destinato essenzialmente alla classe operaia, al fine di mobilitarla per il rovesciamento del sistema capitalistico e dello Stato borghese. Ai primi isolati attentati incendiari, seguirono, fra il '72 e il '75, sequestri di dirigenti industriali e di magistrati (il più clamoroso fu quello del giudice Sossi, avvenuto nell'aprile '74). Nel '76, con l'uccisione del procuratore generale di Genova Coco e dei due uomini della sua scorta, si giunse all'assassinio programmato. Gli autori di queste azioni appartenevano alle Brigate rosse, il primo e il più pericoloso gruppo terrorista di sinistra, attivo fino ad anni recenti. Ad esso si affiancarono, fra il '75 e il '76, i Nuclei armati proletari e Prima linea.
Negli stessi anni in cui dovette fronteggiare il salto di qualità compiuto dal terrorismo di sinistra, il governo si trovò a confrontarsi con gli effetti della crisi economica. Nel '75 il prodotto interno si ridusse del 3,6%. A partire dall'anno successivo si ebbe una limitata ripresa, ma il tasso di inflazione rimase molto elevato, oscillando fra il 17 e il 19% (tra i più alti dei paesi industrializzati). L'inflazione era dovuta in parte all'aumento del prezzo del petrolio, ma anche alla dilatazione dei consumi e alla crescita della spesa pubblica (assorbita in buona parte dalle spese correnti); e i suoi effetti furono amplificati dal nuovo meccanismo di scala mobile introdotto nel gennaio '75 da un accordo fra sindacati e Confindustria, meccanismo che assicurava ai salari (soprattutto a quelli più bassi) un più rapido adeguamento al costo della vita.
Se la questione della spesa pubblica e quella del costo del lavoro erano destinate a restare, anche negli anni successivi, i principali nodi insoluti dell'economia italiana, il problema socialmente più drammatico era quello della disoccupazione, soprattutto giovanile. Lo sviluppo della scolarizzazione accresceva le aspirazioni dei giovani, che però faticavano a trovare sbocchi adeguati al titolo di studio. Il malessere giovanile si espresse in forme drammatiche nei primi mesi del 1977, quando un nuovo movimento di studenti universitari e medi diede luogo a occupazioni di università e a violenti scontri di piazza, che videro per la prima volta l'uso frequente di armi da fuoco da parte dei dimostranti. Protagonisti degli scontri furono i gruppi di Autonomia operaia, che raccoglievano in forme ulteriormente estremizzate l'eredità dell'operaismo sessantottesco. Sembrò a molti che ci si trovasse di fronte a una riedizione dell'esperienza del '68. Ma di quell'esperienza si era ormai perso l'originario ottimismo rivoluzionario. Il movimento del '77 era in realtà il coagulo provvisorio di una serie di gruppi e movimenti, accomunati solo dallo spontaneismo e da una radicalizzazione esasperata. Bersaglio principale della contestazione fu la sinistra tradizionale, soprattutto il Pci e i sindacati: clamorosa fu l'aggressione di un gruppo di autonomi a un comizio del segretario della Cgil Lama, avvenuta in febbraio all'università di Roma.
L'inevitabile delusione seguita all'ondata del '77 si risolse, per la maggioranza dei giovani che vi erano stati coinvolti, in un ripiegamento nella dimensione del privato; ma per altri significò il passaggio alla militanza terroristica. A partire da questo momento si registrò infatti una brusca impennata del terrorismo di sinistra: nel solo '77 vi furono 287 attentati, molti dei quali con spargimento di sangue, rivendicati da 77 sigle diverse. Nel '79 gli attentati salirono a 805 e le sigle a 217. Gli anni fra il '77 e l'80, quelli in cui il terrorismo sembrava non più arginabile, furono fra i più duri della storia della Repubblica.
Nel 1978 le Brigate rosse, consapevoli di disporre di una più diffusa rete di consensi, misero in atto il loro progetto più ambizioso. Il 16 marzo - il giorno stesso della presentazione in Parlamento di un nuovo governo Andreotti, monocolore democristiano appoggiato da una maggioranza allargata anche al Pci - un commando brigatista rapì Aldo Moro, presidente della Dc e principale artefice della nuova politica di "solidarietà nazionale", uccidendo i cinque uomini della sua scorta. A quella giornata, vissuta dal paese con sorpresa e sgomento, seguirono 55 giorni di attesa e di polemiche di fronte alla sofferta decisione del governo di non trattare il rilascio di Moro con i terroristi, decisione appoggiata dal Pci e contrastata, per motivi umanitari, dal Psi e da altri gruppi minori della sinistra. Il 9 maggio Moro fu ucciso e il suo cadavere abbandonato in una strada del centro di Roma. Questo delitto evidenziò come nessun altro la gravità del fenomeno terroristico, ma contemporaneamente avviò una progressiva presa di distanze dall'area eversiva da parte di quanti avevano coltivato fin allora ambigue solidarietà. Un fatto che, unito al potenziamento delle forze dell'ordine, avrebbe portato, a partire dall'80, alle prime sconfitte del terrorismo di sinistra.
Nel non facile clima politico creatosi dopo l'assassinio di Moro, il nuovo governo di solidarietà nazionale cercò di avviare il risanamento dell'economia, aiutato in questo dall'atteggiamento dei comunisti, che si fecero sostenitori di una linea di austerità, e da una relativa moderazione delle richieste sindacali. Nel '78 l'inflazione scese di qualche punto (toccando col 13,9% il livello più basso del periodo '73-'84). La situazione finanziaria diede segni di miglioramento, grazie all'adozione di nuove imposte indirette e grazie anche agli effetti della riforma fiscale varata nel '74, che aveva reso più razionale ed efficiente il sistema della tassazione diretta. Ma, sul fronte delle riforme (che avrebbero dovuto compensare e giustificare la politica di austerità), la difficoltà di conciliare tutti gli interessi rappresentati nella coalizione portò a risultati discutibili. La legge del '78 sull'equo canone, che aveva lo scopo di regolare e calmierare il livello degli affitti, avrebbe prodotto risultati disastrosi sul mercato degli alloggi, soprattutto nelle grandi città. La riforma sanitaria varata nello stesso anno - che sanciva la gratuità delle cure per tutti e riordinava la medicina pubblica, affidandone la gestione ad appositi organismi (le Usi, Unità sanitarie locali) dipendenti dalle regioni - si sarebbe rivelata, nell'applicazione concreta, fonte di inefficienza e di sprechi.
Nel complesso, la politica di solidarietà nazionale non produsse risultati adeguati all'ampiezza delle forze impegnate e alle attese dell'opinione pubblica di sinistra. L'ingresso dei comunisti nella maggioranza non fu sufficiente, come molti avevano sperato, a mettere in moto un processo di trasformazione sociale e a risanare la vita pubblica. In questi anni si mantenne e si rafforzò la pratica della lottizzazione (ossia la spartizione delle cariche pubbliche in base a criteri di appartenenza partitica). Continuarono a verificarsi, soprattutto negli enti locali e nelle imprese a partecipazione statale, episodi di cattiva gestione o di vera e propria corruzione politica. Gli scandali giunsero a toccare la presidenza della Repubblica, costringendo alle dimissioni, nel giugno '78, il capo dello Stato, il demo-cristiano Giovanni Leone (eletto nel '71 da una maggioranza di centro-destra), accusato di connivenze con gruppi affaristici. Al suo posto fu eletto, col voto di tutti i partiti dell'"arco costituzionale", il socialista
Sandro Pertini, ottantaduenne, figura di indiscusso prestigio morale, che seppe conquistarsi in breve tempo una vastissima popolarità.
Si andava frattanto esaurendo l'esperienza della solidarietà nazionale. Il nuovo corso impresso da Craxi alla politica socialista - centrato sul recupero della tradizione riformista in aperta polemica col Pci e insofferente dei vincoli imposti dalla grande coalizione - rendeva sempre più difficile la collaborazione all'interno della maggioranza e ricreava le condizioni per una ripresa dell'alleanza fra il Psi e i partiti di centro (interrotta nel '75 per volontà degli stessi socialisti). D'altro canto i comunisti chiedevano l'ingresso a pieno titolo nell'esecutivo, minacciando in caso contrario il passaggio all'opposizione. Nel gennaio '79, il Pci, in contrasto con gli altri partiti anche su problemi di politica estera ed economica - in particolare sull'adesione al Sistema monetario europeo - abbandonò la maggioranza. La crisi che seguì portò, pochi mesi dopo, a nuove elezioni anticipate.
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