16.6 Il problema dello sviluppo industriale e il protezionismo
Se da un lato la crisi agraria costituì un ulteriore fattore di ritardo per il decollo industriale italiano (in quanto indebolì la base produttiva del paese e rallentò il processo di trasformazione capitalistica dell'agricoltura), per altri versi essa finì col favorirlo, o quanto meno col renderne più chiara la necessità. La crisi non solo distolse capitali dal settore agricolo, indirizzandoli verso altri impieghi, ma fece cadere le illusioni di chi ancora credeva che lo sviluppo economico italiano potesse fondarsi solo sull'agricoltura e sull'esportazione dei prodotti della terra.
Gli esponenti della Sinistra, pur essendo nel complesso bendisposti nei confronti delle richieste degli industriali, erano, come i loro predecessori, decisamente avversi in linea di principio all'intervento dello Stato nell'economia. Queste convinzioni liberiste furono però scosse dall'andamento tutt'altro che brillante dell'economia nazionale e dall'esempio che veniva dagli altri Stati europei, soprattutto dalla Germania. Un primo mutamento di rotta si ebbe nel 1878, con l'approvazione di una serie di dazi doganali che offrivano una moderata protezione ai prodotti dell'industria, in particolare di quella tessile, con effetti però abbastanza limitati. In seguito i governi della Sinistra si orientarono verso una politica di più deciso appoggio all'industria, o almeno a quei settori che apparivano strategicamente più importanti o più bisognosi dell'appoggio statale.
Un passo significativo in questa direzione fu compiuto nel 1884 con la fondazione di un nuovo grande complesso siderurgico, le Acciaierie di Terni, realizzato col concorso finanziario delle maggiori banche nazionali e col decisivo aiuto dello Stato, che si impegnava all'acquisto di ingenti forniture per le ferrovie e per la marina da guerra. Lo scopo era quello di raggiungere l'autosufficienza in materia di armamenti, allora considerata un requisito indispensabile per un paese con ambizioni da grande potenza. Si sarebbe trattato, comunque, di un'autosufficienza relativa (l'Italia doveva sempre importare buona parte del ferro e tutto il carbone necessario al settore metallurgico) e pagata per giunta a caro prezzo, visto che i prodotti dell'industria nazionale venivano a costare molto più di quelli stranieri. Ciò significava, d'altra parte, che l'industria siderurgica, non potendosi reggere sulle sole commesse statali, aveva bisogno per sopravvivere di un'elevata protezione doganale. Una decisa svolta in senso protezionistico era del resto invocata ormai da quasi tutti gli industriali e dagli stessi proprietari terrieri, un tempo incondizionatamente favorevoli al liberismo ma ora colpiti dalle conseguenze della crisi agraria.
Si giunse così nell'estate del 1887 - mentre era in carica l'ultimo governo Depretis - al varo di una nuova tariffa generale che metteva al riparo dalla concorrenza straniera importanti settori dell'industria nazionale (i più favoriti, oltre al siderurgico, furono il laniero, il cotoniero e lo zuccheriero), colpendo le merci di importazione con pesanti dazi di entrata. In campo agricolo, il nuovo regime doganale fu esteso ai cereali: il dazio sul grano fu quasi triplicato fra l'87 e l'89. La tariffa dell'87 segnava una rottura definitiva con la tradizione liberoscambista seguita negli anni '60 e '70 e poneva le basi di un nuovo blocco di potere economico - simile per certi aspetti a quello realizzatosi nella Germania bismarckiana - fondato sull'alleanza fra l'industria protetta e i grandi proprietari terrieri (settentrionali e meridionali) e sull'intreccio non sempre limpido fra i maggiori gruppi di interesse e i poteri statali.
È ormai opinione comune che la scelta protezionistica non avesse molte alternative nell'Europa di fine '800, che essa costituisse per l'Italia una sorta di passaggio obbligato sulla strada di quel decollo industriale poi realizzatosi a partire dagli ultimi anni del secolo scorso. È certo tuttavia che, almeno nell'immediato, la tariffa dell'87 produsse una serie di conseguenze negative e accentuò gli squilibri fra i vari settori dell'economia e fra le varie zone del paese. I dazi doganali non proteggevano in modo uniforme i diversi comparti produttivi. Al forte sostegno accordato alla siderurgia faceva riscontro la scarsa protezione di cui godeva l'industria meccanica (danneggiata oltretutto dal rialzo dei prezzi dei prodotti siderurgici). Nel ramo tessile i progressi dei settori protetti (laniero e cotoniero) si accompagnarono al declino di un'industria tradizionalmente esportatrice come quella della seta. Quanto all'agricoltura, l'introduzione del dazio sul grano provocò un immediato rialzo del prezzo dei cereali: il che, se da un lato rappresentò una boccata d'ossigeno per le aziende in crisi, dall'altro danneggiò i consumatori (che videro praticamente annullati i vantaggi ottenuti con l'abolizione della tassa sul macinato) e contribuì a tenere in vita, soprattutto nel Mezzogiorno, realtà produttive tecnicamente arretrate. Contemporaneamente l'agricoltura meridionale veniva colpita nel suo settore più moderno: quello delle colture specializzate, che si reggeva soprattutto sulle esportazioni e che vide bruscamente chiudersi il suo principale mercato di sbocco. La tariffa dell'87 ebbe infatti come conseguenza una rottura commerciale, poi degenerata in vera e propria guerra doganale, con la Francia, che era stata fin allora il principale partner economico dell'Italia e il maggior acquirente dei prodotti agricoli del Sud.
Ancora una volta era dunque il Mezzogiorno a pagare i prezzi più pesanti in termini di povertà e di arretratezza sociale. Questo accadeva non tanto a causa di una precisa scelta dei politici del Nord (anche la classe dirigente meridionale ebbe parte importante nelle decisioni di quegli anni) né per un disegno "coloniale" dei grandi gruppi industriali (che, al contrario, si sarebbero giovati di un più equilibrato sviluppo del paese e di un conseguente ampliamento del mercato interno); ma era piuttosto la conseguenza di uno squilibrio storico fra due aree - una arretrata, l'altra relativamente progredita - che i governi postunitari non avevano saputo sanare e che, per un meccanismo tipico dei paesi a economia dualistica, tendeva spontaneamente ad aggravarsi.
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