20.2 La svolta liberale
Rinunciando a ripresentare i provvedimenti repressivi proposti da Pelloux, il governo Saracco inaugurò una fase di distensione nella vita politica italiana. Una distensione che fu indubbiamente favorita dal buon andamento dell'economia - e dal conseguente allentamento delle tensioni sociali - e non fu interrotta nemmeno da un evento traumatico come l'uccisione di Umberto I. Al contrario il nuovo re,
Vittorio Emanuele III, si mostrò propenso assai più del padre ad assecondare l'affermazione delle forze progressiste.
Quando il governo Saracco fu costretto a dimettersi per il comportamento incerto e contraddittorio tenuto in occasione di un grande sciopero generale indetto dai lavoratori genovesi, il re seppe ben interpretare il nuovo clima politico chiamando alla guida del governo, nel febbraio 1901, il leader della sinistra liberale Zanardelli, che affidò il ministero degli Interni a
Giovanni Giolitti. Una scelta, quest'ultima, quanto mai significativa, dal momento che proprio Giolitti, nel dibattito parlamentare sullo sciopero di Genova (p. 441-2), aveva formulato con molta chiarezza la teoria secondo cui lo Stato liberale non aveva nulla da temere dallo sviluppo delle organizzazioni operaie e nulla da guadagnare da una repressione indiscriminata delle loro attività, ma al contrario aveva tutto l'interesse a consentirne il libero svolgimento. Idee che oggi possono apparire ovvie ma che allora, tradotte in pratica di governo, ebbero l'effetto di aprire una nuova stagione nei rapporti fra lo Stato e i lavoratori, fra la classe dirigente e il movimento operaio.
Nei suoi quasi tre anni di vita il ministero Zanardelli-Giolitti condusse in porto alcune importanti riforme. Furono estese le norme, varate nel 1886 sotto il governo Depretis, che limitavano il lavoro minorile e femminile nell'industria. Fu migliorata la legislazione, introdotta per la prima volta da Rudinì nel '97-'98, relativa alle assicurazioni (volontarie) per la vecchiaia e a quelle (obbligatorie) per gli infortuni sul lavoro. Fu costituito un Consiglio superiore del lavoro, organo consultivo per la legislazione sociale, cui partecipavano, accanto a funzionari governativi, rappresentanti espressi dalle categorie economiche, compresi esponenti delle organizzazioni sindacali socialiste. Importante fu anche la legge che autorizzava i comuni all'esercizio diretto (municipalizzazione) di servizi pubblici come l'elettricità, il gas, i trasporti.
Ma più importante delle singole riforme fu il nuovo atteggiamento del governo in materia di conflitti di lavoro. Tenendo fede al programma enunciato, e in parte già sperimentato nella sua prima, sfortunata esperienza di governo, Giolitti mantenne una linea di rigorosa neutralità nelle vertenze del settore privato (diverso e più intransigente fu invece il suo atteggiamento nei confronti delle agitazioni nei servizi pubblici), purché non degenerassero in manifestazioni violente.
Le conseguenze del nuovo corso furono subito evidenti. Le organizzazioni sindacali, operaie e contadine, cancellate o ridotte alla clandestinità dalle repressioni del '98, si svilupparono rapidamente. In quasi tutte le principali città del Centro-nord si costituirono, o si ricostituirono, le Camere del lavoro, mentre crescevano anche le organizzazioni di categoria (nel 1902 esistevano 25 federazioni nazionali, con 240.000 iscritti). Un fenomeno a parte - e tipicamente italiano - era poi lo sviluppo delle organizzazioni dei lavoratori agricoli. Formate in prevalenza da braccianti (ma anche da mezzadri e piccoli affittuari) e concentrate in prevalenza nelle province padane, le leghe rosse si riunirono, nel novembre 1901, nella Federazione italiana dei lavoratori della terra (Federterra) che contava oltre 200.000 iscritti. Obiettivo finale e dichiarato delle leghe era la "socializzazione della terra". Obiettivi immediati erano l'aumento dei salari, la riduzione degli orari di lavoro, l'istituzione di uffici di collocamento controllati dai lavoratori stessi.
Lo sviluppo delle organizzazioni sindacali fu accompagnato da una brusca impennata degli scioperi. Le astensioni dal lavoro, che nell'ultimo decennio dell'800 erano state rare e sporadiche (con una media di poche decine all'anno), salirono a 1670 nel 1901 e superarono il migliaio anche nel 1902, interessando sia il settore industriale sia quello agricolo. Ne derivò una spinta al rialzo dei salari destinata a protrarsi, con poche interruzioni, per tutto il primo quindicennio del secolo. Fra il 1900 e il 1915 le retribuzioni reali dei lavoratori dell'industria crebbero del 35% (dunque in misura superiore all'aumento del reddito medio, che fu del 30% circa); e ancora più consistente, intorno al 50%, fu l'aumento delle paghe giornaliere dei salariati agricoli. Questi progressi non si possono spiegare, ovviamente, solo con la nuova politica liberale e la conseguente libertà sindacale, ma vanno inquadrati nella fase di generale sviluppo economico attraversata dal paese in questo periodo.
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