30.11 La destalinizzazione e la crisi ungherese
In Unione Sovietica la "direzione collegiale" che aveva raccolto l'eredità di Stalin ed era composta da ex collaboratori del capo scomparso (Malenkov, Molotov, Beria, Mikoyan, Bulganin, Kruscёv) durò solo pochi anni. Dopo una serie di duri scontri, il segretario del Pcus,
Nikita Kruscёv, si impose come il leader indiscusso del paese, giungendo a cumulare, nel '57, le cariche di segretario del partito e primo ministro. Personaggio vivace ed estroverso (molto diverso in questo da Stalin), dotato di una notevole carica di comunicativa popolaresca, il nuovo leader si fece promotore di alcune significative aperture sia in politica estera sia in politica interna. Sotto il primo aspetto vanno ricordati il trattato di Vienna e l'incontro con i capi occidentali a Ginevra, ma anche la clamorosa riconciliazione con i comunisti jugoslavi, nel maggio '55, e lo scioglimento del Cominform, nell'anno seguente. In politica interna la svolta krusceviana non introdusse mutamenti sostanziali nella struttura autoritaria del potere sovietico e nella gestione centralizzata dell'economia, ma segnò la fine delle "grandi purghe" e comportò, in materia economica, un rilancio dell'agricoltura e una maggiore attenzione alle condizioni di vita dei cittadini.
Per rendere irreversibile la svolta, Kruscёv non esitò a compiere l'operazione più traumatica di tutta la storia del gruppo dirigente sovietico: la demolizione della figura di Stalin attraverso una sistematica denuncia degli errori e dei crimini commessi in Unione Sovietica a partire dagli anni '30. In un rapporto al XX congresso del Pcus (febbraio 1956), Kruscёv pronunciò una durissima requisitoria contro il leader scomparso, rievocando senza reticenze gli arresti in massa e le deportazioni, le torture e i processi-farsa e riabilitando implicitamente le vittime del terrore staliniano (con l'eccezione di Trotzkij). Il rapporto Kruscёv - che fu letto ai soli dirigenti e non fu mai pubblicato in Urss, ma fu presto conosciuto in tutto il mondo occidentale - non metteva in discussione la validità del modello sovietico e della dottrina leniniana. Gli errori e le deviazioni erano attribuiti alle scelte di Stalin, al "culto della personalità" che lo aveva circondato, all'eccessivo potere della burocrazia e alle troppo frequenti violazioni della "legalità socialista".
La denuncia ebbe ugualmente effetti traumatizzanti. I partiti comunisti occidentali si allinearono al nuovo corso non senza imbarazzi e riserve. Resistenze e proteste si manifestarono anche in Urss, dove il contenuto del documento divenne presto noto, anche se per canali non ufficiali. Ma le conseguenze più esplosive della destalinizzazione si ebbero nell'Europa dell'Est, in particolare in Polonia e in Ungheria. In questi paesi, il rapporto Kruscёv fece nascere l'illusione che l'egemonia dell'Urss sui suoi satelliti potesse assumere forme più blande o essere cancellata del tutto.
In Polonia furono soprattutto gli operai - con l'appoggio di una Chiesa cattolica ancora molto forte, nonostante le dure repressioni subite - a rendersi interpreti delle aspirazioni al cambiamento, dando vita a una serie di agitazioni culminate, nel giugno 1956, nel grande sciopero di Poznan. Lo sciopero fu stroncato con l'intervento di truppe sovietiche. Ma le agitazioni continuarono durante l'estate per poi sfociare in un generale moto di protesta (l'ottobre polacco), in cui le istanze di democratizzazione si mescolavano al risentimento antisovietico. Piuttosto che affrontare una difficile repressione militare, i dirigenti dell'Urss preferirono puntare su un ricambio ai vertici del partito e del governo, favorendo l'ascesa al potere di Wladyslaw Gomulka, liberato da poco dal carcere. Gomulka promosse una politica di cauta liberalizzazione e di parziale riconciliazione con la Chiesa, impegnandosi per contro a non mettere in discussione l'alleanza con l'Urss e l'appartenenza della Polonia al campo socialista.
In Ungheria gli avvenimenti del '56 seguirono all'inizio un corso analogo. Vi furono, per tutta l'estate, agitazioni e proteste animate soprattutto da intellettuali e studenti. In ottobre le proteste sfociarono in una vera e propria insurrezione, con ampia partecipazione dei lavoratori. In tutte le fabbriche si formarono consigli operai, autonomi dalle organizzazioni ufficiali. A capo del governo fu chiamato Imre Nagy, comunista dell'ala "liberale", già espulso dal partito. Alla fine del mese le truppe sovietiche si ritirarono dall'Ungheria. A questo punto, però, il regime di piena libertà instauratosi nel paese aprì larghi spazi alle forze antisovietiche e i comunisti persero il controllo della situazione. Quando, il 1° novembre, Nagy annunciò l'uscita dell'Ungheria dal Patto di Varsavia, il segretario del Partito comunista Janos Kadar invocò l'intervento sovietico. Reparti dell'Armata rossa occuparono Budapest e stroncarono in pochi giorni l'accanita resistenza delle milizie popolari. Pochi mesi dopo, Nagy fu fucilato, mentre Kadar assumeva la guida del paese.
L'intervento sovietico - che suonava come una brutale smentita alle speranze suscitate dalla destalinizzazione - provocò sdegno e proteste in tutto l'Occidente e suscitò non poche crisi di coscienza fra i comunisti di tutto il mondo, già colpiti dal trauma del rapporto Kruscёv. Ma, sul piano dei rapporti di forza, la "rioccupazione" dell'Ungheria rappresentò una conferma del controllo sovietico sui paesi satelliti e dell'immutabilità dell'assetto europeo uscito dalla seconda guerra mondiale.
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