10.9 Garibaldi e la spedizione dei Mille
Cedendo i suoi territori d'oltralpe (in particolare la Savoia, terra di origine della casa regnante, ma abitata da popolazioni di lingua francese) e allargando i suoi confini verso la Lombardia e l'Italia centrale, lo Stato sabaudo cessava di essere uno Stato dinastico e si avviava a diventare uno Stato nazionale. Un simile risultato poteva apparire soddisfacente, almeno per il momento, a Cavour e ai moderati; ma certo non accontentava i democratici, pronti a sfruttare le circostanze favorevoli per rilanciare l'iniziativa rivoluzionaria nel Mezzogiorno e nello Stato della Chiesa. Esclusa, per le prevedibili complicazioni internazionali, l'opportunità di un'azione nei territori pontifici, tornava d'attualità l'idea di una spedizione di volontari nel Regno delle due Sicilie, dove alla morte di Ferdinando II, nel maggio del '59, era seguita l'ascesa al trono del giovane e inetto Francesco II. Ma, più che il Mezzogiorno continentale, teatro recente del fallito tentativo di Pisacane, era la Sicilia, in stato di latente rivolta contro il governo napoletano, a offrire un terreno favorevole per un'iniziativa rivoluzionaria.
Furono due mazziniani siciliani esuli in Piemonte, Francesco Crispi e Rosolino Pilo, a concepire il progetto di una spedizione nell'isola come prima tappa di un movimento insurrezionale che avrebbe dovuto estendersi al continente fino allo Stato pontifìcio e possibilmente a Venezia. Diversamente da quanto aveva fatto Pisacane nel '57, Crispi e Pilo cercarono, da una parte, di organizzare una rivolta locale prima dello sbarco dei volontari; dall'altra, di assicurare alla spedizione un'efficiente guida politica e militare e di garantirsi nel contempo un qualche appoggio del governo piemontese. Ai primi di aprile del 1860, un'insurrezione popolare scoppiava a Palermo. Mentre Pilo accorreva in Sicilia per assumere la direzione del moto - che fu sanguinosamente represso nel capoluogo ma si estese alle campagne, dando luogo ad una diffusa e ostinata guerriglia -, Crispi si adoperò per convincere
Giuseppe Garibaldi ad assumere la guida della spedizione.
Garibaldi era in quel momento non solo il capo militare più prestigioso di cui disponesse il movimento patriottico, ma anche l'unico leader capace di unificare attorno a sé le diverse componenti dello schieramento patriottico e unitario, dai democratici intransigenti ai moderati filocavouriani. Repubblicano convinto, con qualche vaga inclinazione verso un socialismo di stampo umanitario, si era allontanato da Mazzini non tanto per divergenze teoriche, quanto per una realistica valutazione sulle possibilità di successo del programma proposto dal Partito d'azione. Aveva finito così per aderire alla Società nazionale e, negli anni successivi, aveva collaborato lealmente con la monarchia sabauda, combattendo con successo in Lombardia nella campagna del '59 ed assumendo, dopo Villafranca, il comando dei corpi volontari unificati costituiti dai governi provvisori dell'Italia centrale. L'opposizione della diplomazia piemontese e dei moderati emiliani e toscani al suo progetto di muovere guerra allo Stato pontificio - e poi la cessione alla Francia di Nizza, sua città natale - lo avevano in seguito indotto a riavvicinarsi ai vecchi compagni del Partito d'azione, senza però interrompere i contatti con la Società nazionale e con i circoli governativi piemontesi.
Quando accettò, dopo molte incertezze, di capeggiare la spedizione in Sicilia, Garibaldi era insomma l'unico fra i leader democratici che apparisse in grado di assicurare qualche possibilità di riuscita all'impresa, ritenuta da tutti estremamente rischiosa. Cavour, che temeva le complicazioni internazionali e vedeva nella spedizione un'occasione di rilancio per i mazziniani, la avversò, pur senza far nulla di serio per impedirla. Vittorio Emanuele II, che guardava invece con malcelato favore al tentativo di Garibaldi, non poté intervenire concretamente in suo aiuto. La spedizione fu così preparata in fretta, sotto l'incalzare delle contrastanti notizie che giungevano dalla Sicilia, e con pochi mezzi finanziari: dunque con scarso equipaggiamento e pessimo armamento.
Nella notte fra il 5 e il 6 maggio 1860, poco più di mille volontari provenienti da diverse regioni (ma in maggioranza settentrionali) e di varia estrazione sociale (per metà borghese-intellettuale, per metà operaia o artigiana), in larga parte veterani delle campagne del '48 e del '59, presero il mare a Quarto presso Genova, dopo essersi impadroniti di due navi a vapore, il Piemonte e il Lombardo. Pochi giorni dopo, eludendo la sorveglianza della flotta borbonica, i volontari sbarcavano a Marsala, nell'estremità occidentale della Sicilia e penetravano nell'interno, accolti con entusiasmo dalla popolazione. Il 15 maggio, a Calatafimi, le colonne garibaldine, ingrossate da poche centinaia di insorti siciliani, entrarono in contatto con un contingente borbonico e, nonostante l'inferiorità numerica, riuscirono a metterlo in fuga. Galvanizzati dal successo, i volontari puntarono su Palermo, ingannando con una manovra diversiva le male organizzate e mal comandate truppe borboniche, e la raggiunsero dopo una difficile marcia fra le montagne. All'arrivo delle avanguardie garibaldine, Palermo insorse. Alla fine di maggio, dopo tre giorni di duri combattimenti, i contingenti governativi furono costretti ad abbandonare il capoluogo, dove Garibaldi - che appena sbarcato in Sicilia aveva assunto la dittatura in nome di Vittorio Emanuele II - proclamò la decadenza della monarchia borbonica.
Mentre nell'isola si formava un governo civile provvisorio sotto la guida di Francesco Crispi e si tentava di mettere in moto un primo processo di riforma sociale (riduzione del carico fiscale, assegnazione di terre ai contadini combattenti nelle file garibaldine), nell'Italia settentrionale una organizzazione che faceva capo ad Agostino Bertoni raccoglieva uomini e mezzi da inviare in Sicilia: fra giugno e luglio sbarcarono a Palermo quasi 15.000 volontari. Col loro apporto, Garibaldi poté muovere all'attacco delle truppe borboniche, che si erano concentrate nella parte nord-orientale dell'isola, e sconfiggerle, il 20 luglio, a Milazzo, costringendole a rifugiarsi sul continente.
Nel giro di poche settimane, l'impresa garibaldina aveva assunto le dimensioni di una vera e propria epopea, cui l'opinione pubblica di tutta Europa assisteva con stupore e spesso con simpatia. La rapidità con cui si era consumato il collasso del regime borbonico in Sicilia aveva inoltre colto di sorpresa la diplomazia delle grandi potenze e aveva costretto Cavour e i moderati italiani a rivedere frettolosamente la loro strategia. Di fronte all'inatteso successo dell'azione garibaldina, il primo ministro piemontese mostrò, da un lato, di volerne agevolare il buon esito, favorendo l'afflusso di armi e di volontari in Sicilia; dall'altro, tentò di bloccarne gli ulteriori sviluppi, inviando nell'isola Giuseppe La Farina col compito di suscitare un movimento di opinione pubblica favorevole all'annessione al Piemonte. Il tentativo fallì di fronte alla ferma reazione di Garibaldi e di Crispi, decisi a portare la lotta sul continente e a rimandare a dopo la conclusione dell'impresa ogni decisione circa i tempi e le forme dell'unificazione nazionale. Ma era la stessa situazione che si era nel frattempo venuta a creare nell'isola a lavorare in favore dell'annessione.
Il clima di entusiastica concordia che aveva accolto i garibaldini al loro sbarco in Sicilia - e che era stato tra i fattori principali del loro successo - si era ben presto dissolto quando i contadini avevano intravisto la possibilità di liberarsi non solo dal malgoverno borbonico, ma anche dal secolare sfruttamento cui li condannava una struttura sociale arcaica e semifeudale; e avevano dato vita a una serie di violente agitazioni. Dal canto loro, Garibaldi e i suoi collaboratori avevano cercato di venire incontro alle esigenze dei contadini, ma senza mettere in discussione il quadro dei rapporti di proprietà (le assegnazioni decise ai primi di giugno riguardavano solo i terreni demaniali) e comunque subordinando le iniziative riformatrici all'esigenza primaria di raccogliere sul posto un esercito capace di condurre a termine la lotta contro il governo borbonico: un obiettivo questo che cozzava contro l'ostilità dei siciliani alla coscrizione obbligatoria, fino a quel momento sconosciuta nell'isola.
Fra i patrioti giunti dal Nord, che miravano a una meta essenzialmente politica (e non volevano né potevano alienarsi l'appoggio della borghesia locale), e i contadini insorti, che si preoccupavano invece di raggiungere i propri obiettivi particolari (la lotta contro le tasse e contro i signori, la conquista della terra) disinteressandosi dei fini generali della guerra, nacque così un contrasto insanabile, sfociato in episodi di dura repressione: il più noto si verificò ai primi di agosto nella cittadina di Bronte, ai piedi dell'Etna, dove alcuni ribelli furono fucilati per ordine di Nino Bixio, braccio destro militare di Garibaldi. Ma intanto i proprietari terrieri, spaventati dalle agitazioni agrarie, guardavano sempre più all'annessione al Piemonte come all'unica efficace garanzia per la tutela dell'ordine sociale.
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