5.8 Marx, Engels e il "Manifesto dei comunisti"
Negli anni '30 e '40, le idee socialiste conobbero una certa diffusione anche in Germania, dove trovarono sostenitori non tanto nell'ancora scarso proletariato industriale, quanto in piccoli gruppi di intellettuali e di artigiani. In realtà, dato che le condizioni politiche della Confederazione germanica lasciavano poco spazio all'espressione del dissenso, i nuclei socialisti si organizzarono soprattutto all'estero, fra le comunità abbastanza numerose di lavoratori tedeschi che operavano in Belgio, in Gran Bretagna e soprattutto in Francia. Il più importante fra questi gruppi era la Lega dei giusti, che aveva il suo esponente più noto nel sarto Wilhelm Weitling, teorico di un comunismo utopistico molto vicino alle idee di Cabet e di Blanqui. Nata a Parigi nel 1834 e collegata alle società segrete francesi, soprattutto a quelle di ispirazione blanquista, la Lega si disperse dopo essere stata coinvolta nel fallito tentativo insurrezionale del '39 (
4.4). Nel 1847, un gruppo di esuli a Londra decise di rifondarla col nuovo nome di Lega dei comunisti e affidò l'incarico di stenderne il manifesto programmatico a due intellettuali non ancora trentenni:
Karl Marx e
Friedrich Engels.
Engels, nato nel 1820, era figlio di un ricco industriale, aveva soggiornato a lungo in Gran Bretagna (dove il padre era titolare di una industria tessile), aveva studiato le opere degli economisti "classici" ed era noto soprattutto come autore di un saggio sulle Condizioni della classe operaia in Inghilterra, uscito nel 1845. Marx, più anziano di due anni, aveva una formazione essenzialmente filosofica, maturata negli ambienti della cosiddetta sinistra hegeliana: quel gruppo di filosofi tedeschi che, pur ricollegandosi all'insegnamento di Hegel ed accettandone la concezione dialettica, ne rovesciava i presupposti e poneva al centro della storia non lo Spirito universale, ma l'uomo nella sua concretezza. Impossibilitato, per le sue idee di sinistra, a percorrere la carriera accademica e insoddisfatto di un'attività puramente speculativa (era convinto che compito degli intellettuali fosse non tanto "interpretare il mondo" - come fin allora avevano fatto i filosofi - quanto "cambiarlo"), Marx si staccò dalla sinistra hegeliana, emigrò a Parigi, poi a Londra, e si avvicinò ai gruppi socialisti dell'esilio. L'incontro con Engels, avvenuto nel '44, lo indirizzò verso gli studi economici e sociali.
Nel Manifesto dei comunisti, uscito a Londra all'inizio del '48 ma rimasto a lungo sconosciuto al di fuori degli ambienti dell'emigrazione tedesca, Marx ed Engels si fecero assertori di un nuovo socialismo - da loro definito "scientifico" in contrapposizione a quello "utopistico" dei Saint-Simon e dei Fourier - che univa una fortissima carica rivoluzionaria a un solido fondamento economico e filosofico.
Il nucleo fondamentale del "socialismo scientifico" - nucleo che Marx avrebbe poi sviluppato nella sua opera maggiore, Il Capitale - sta in una concezione materialistica e dialettica della storia, vista essenzialmente come un susseguirsi di lotte di classe, di scontri fra interessi economici. I rapporti economici costituiscono, per gli autori del Manifesto, la base portante, la struttura di ogni società. Le ideologie e le istituzioni politiche, a cominciare dallo Stato, sono solo sovrastrutture che servono a organizzare e a legittimare il dominio di una classe sulle altre. Anche i regimi liberali e democratici sono l'espressione di un dominio di classe, quello della borghesia giunta alla fase matura del suo sviluppo.
Secondo Marx ed Engels, la stessa borghesia ha svolto, nella fase della sua ascesa, una funzione rivoluzionaria. Dando vita al capitalismo industriale, ha accresciuto enormemente le capacità produttive dell'umanità, ha abbattuto le disuguaglianze giuridiche della società feudale, ha stabilito il dominio della città sulla campagna, ha cancellato le stesse frontiere fra gli Stati, creando un unico mercato delle merci e del lavoro. Ma, al tempo stesso, ha suscitato contraddizioni che non riesce più a risolvere (da qui le ricorrenti crisi economiche) e ha prodotto il suo antagonista storico, il nuovo soggetto sociale che la soppianterà: il proletariato. È infatti la logica stessa del sistema industriale che fa crescere continuamente il numero dei proletari e, contemporaneamente, li riduce a una massa indifferenziata, dequalificata e fatalmente destinata a diventare sempre più misera.
Ribellandosi al sistema capitalistico, il proletariato non ha da perdere nulla "se non le proprie catene": è dunque una classe naturalmente rivoluzionaria, tanto più in quanto rappresenta (al contrario della borghesia) gli interessi dell'enorme maggioranza della popolazione. Per far valere i suoi interessi, il proletariato deve organizzarsi non solo all'interno dei singoli Stati, ma anche su scala sovranazionale ("Proletari di tutti i paesi, unitevi!" è il celebre appello con cui si conclude il Manifesto). Una volta organizzata, la classe operaia profitterà dell'inevitabile crisi del capitalismo (che colpirà per primi i paesi più industrializzati) e assumerà il potere. In una prima fase, questo potere assumerà le forme della dittatura, necessaria per contrastare i prevedibili tentativi di reazione della borghesia e per assicurare il passaggio alla vera società comunista: la società senza privilegi, senza classi e senza Stato, in cui le enormi potenzialità produttive di cui la tecnica umana è capace saranno messe al servizio dell'intera collettività.
Nonostante questi accenni di sapore decisamente utopistico, il Manifesto dei comunisti si distaccava nettamente da tutte le precedenti elaborazioni del pensiero socialista, non solo per il suo impianto metodologico (che collegava direttamente il processo rivoluzionario alle leggi di sviluppo della società), ma anche per la radicalità delle sue proposte e per la nettezza con cui indicava nel proletariato industriale, e in esso soltanto, il protagonista della trasformazione politica e sociale.
Queste proposte e queste indicazioni non ebbero però un seguito ampio e immediato in un movimento operaio europeo che era ancora disorganizzato e frammentato (la stessa Lega dei comunisti cessò di esistere all'inizio degli anni '50). Le rivoluzioni del '48 - scoppiate in coincidenza con l'uscita del Manifesto - se da un lato portarono in primo piano, soprattutto in Francia, le istanze di una classe operaia sempre meno disposta a subordinare i suoi obiettivi a quelli della borghesia, dall'altro rivelarono quanto questa classe operaia fosse debole e isolata e quanto la stessa borghesia fosse ancora lontana dall'aver compiutamente realizzato i suoi ideali politici.
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