20. L'Italia giolittiana
20.1 La crisi di fine secolo
Negli ultimi anni del secolo scorso, l'Italia fu teatro di una crisi politico-istituzionale paragonabile a quella vissuta dalla Francia, più o meno nello stesso periodo, intorno al caso Dreyfus o a quella attraversata dall'Inghilterra una decina di anni dopo con lo scontro fra Lords e Camera dei Comuni. Se diverso era nei vari casi il contesto politico-sociale e diverse furono le modalità del conflitto, uguale nella sostanza era la posta in gioco: l'evoluzione del regime liberale verso forme di più avanzata democrazia. Anche in Italia lo scontro si concluse con un'affermazione delle forze progressiste: un'affermazione non completa né definitiva, ma sufficiente a far evolvere la vita del paese, che conosceva allora una fase di intenso sviluppo industriale, secondo modelli più vicini a quelli delle democrazie liberali occidentali che non a quelli autoritario-costituzionali degli imperi del Centro Europa.
La caduta di Crispi (marzo 1896), determinata dagli insuccessi coloniali e dall'opposizione convergente dell'estrema sinistra e di una parte della destra, non pose fine ai tentativi di risolvere le tensioni politiche e sociali con una restrizione delle libertà. Al contrario, negli anni che seguirono le dimissioni di Crispi e il ritorno al potere di Rudinì, si delineò fra le forze conservatrici - già divise sulla politica estera e sulle questioni coloniali - la tendenza a ricomporre un fronte comune contro le vere o supposte minacce portate all'ordine costituito dai "nemici delle istituzioni", socialisti, repubblicani o clericali che fossero. Questa tendenza si esprimeva, da un lato, nel tentativo di tornare a una interpretazione restrittiva dello Statuto che, interrompendo la prassi "parlamentare" affermatasi con Cavour, rendesse il governo responsabile di fronte al sovrano, lasciando alle Camere i soli compiti legislativi (era quanto proponeva Sidney Sonnino in un celebre articolo apparso all'inizio del '97 e intitolato significativamente Torniamo allo Statuto); dall'altro, in una ripresa dei metodi crispini in materia di ordine pubblico, volti a colpire indiscriminatamente ogni forma di protesta sociale.
La tensione esplose nella primavera del 1898, quando un improvviso aumento del prezzo del pane (provocato da un cattivo raccolto e dal contemporaneo blocco delle importazioni di cereali dagli Stati Uniti in seguito alla guerra di Cuba) fece scoppiare in tutto il paese - prima in Romagna e nelle Puglie, poi in Toscana, Marche e Campania e in molte delle maggiori città del Centro-nord - una serie di manifestazioni popolari. Si trattava di manifestazioni in larga parte spontanee, che, nonostante una forte presenza operaia, richiamavano, nelle motivazioni e nella dinamica, forme di protesta tipiche delle società preindustriali. La risposta del governo fu comunque durissima. Anziché prendere l'unico provvedimento atto a eliminare le cause della protesta - una riduzione del dazio sul grano - Rudinì si comportò come se dovesse fronteggiare un complotto rivoluzionario: prima massicci interventi delle forze di polizia, quindi proclamazione dello stato d'assedio, con conseguente passaggio dei poteri alle autorità militari, a Milano, a Napoli e nell'intera Toscana.
La repressione raggiunse il culmine a Milano nelle giornate dell'8 e 9 maggio, quando le truppe del generale Bava Beccaris fecero uso dell'artiglieria contro la folla inerme provocando circa cento morti e più di cinquecento feriti. Capi socialisti, radicali e repubblicani furono arrestati e condannati a pene severissime (Turati ebbe dodici anni di carcere) sotto l'accusa, falsa e pretestuosa, di avere organizzato e diretto le agitazioni. Anche il movimento cattolico-intransigente fu duramente colpito dalla repressione.
Una volta riportato l'ordine nel paese, i gruppi moderati e conservatori, che detenevano la maggioranza alla Camera e godevano dell'appoggio del re, cercarono di dare una base legislativa all'azione repressiva dei poteri pubblici. Lo scontro si trasferì così dalle piazze alle aule parlamentari. Caduto un primo progetto presentato da Rudinì - che dovette dimettersi nel giugno '98 per contrasti col re e per dissensi interni alla compagine di governo - il tentativo fu ripreso dal suo successore, il generale piemontese Luigi Pelloux. Ma, alla presentazione da parte di Pelloux di un pacchetto di provvedimenti che limitavano gravemente il diritto di sciopero e le stesse libertà di stampa e di associazione, i gruppi di estrema sinistra (socialisti, repubblicani, radicali) risposero mettendo in atto la tecnica dell'ostruzionismo, consistente nel prolungare all'infinito le discussioni paralizzando così l'azione della maggioranza. La lotta ostruzionistica si protrasse per quasi un anno con fasi altamente drammatiche: dibattiti accesissimi, interventi-fiume, veri e propri scontri fisici fra i deputati.
Incapace di venire a capo dell'ostruzionismo, e indebolito dalla sempre più aperta opposizione dei gruppi liberali-progressisti che facevano capo a Giuseppe Zanardelli e a Giovanni Giolitti, Pelloux decise infine di sciogliere la Camera, sperando in un risultato elettorale che suonasse appoggio alla sua politica. Ma nelle elezioni, che si tennero nel giugno 1900, lo schieramento governativo perse parecchi seggi, mentre ne guadagnarono le opposizioni, in particolare i socialisti che ebbero 33 deputati. Il presidente del Consiglio, pur potendo ancora contare su un'esigua maggioranza, preferì a questo punto dimettersi. Accettando le sue dimissioni e affidando la successione al senatore Giuseppe Saracco, un moderato ritenuto al di sopra delle parti, Umberto I mostrava di prendere atto del fallimento di quella politica repressiva che lo aveva visto fra i suoi più attivi sostenitori. Un mese dopo, il 29 luglio 1900, il re cadeva vittima di un attentato per mano di un anarchico, Gaetano Bresci, venuto appositamente dagli Stati Uniti per vendicare le vittime del '98.
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