15.2 I caratteri del colonialismo
Fin dai tempi delle grandi scoperte geografiche, l'Europa si era lanciata alla conquista del mondo, disseminando in tutti i continenti soldati e missionari, commercianti e coloni. Ma questo processo raggiunse il suo apice e il suo compimento proprio negli ultimi decenni dell'800, con dimensioni e con obiettivi nuovi rispetto a quelli della colonizzazione tradizionale. Se questa era rimasta legata soprattutto all'iniziativa dei privati, in particolare delle grandi compagnie mercantili, la nuova espansione venne assunta sempre più come un obiettivo di politica nazionale da parte dei governi. Alla penetrazione commerciale subentrò un disegno più sistematico di assoggettamento politico e di sfruttamento economico. La tendenza prevalente divenne quella di imporre un controllo più o meno formale a vastissimi territori dell'Africa, dell'Asia e del Pacifico, che furono ridotti alla condizione di vere e proprie colonie (se venivano assoggettati all'amministrazione diretta dei conquistatori) o di protettorati (se il controllo era esercitato in modo indiretto, conservando in vita, almeno formalmente, gli ordinamenti preesistenti).
I territori detenuti dalle potenze europee, nell'una o nell'altra forma, vennero enormemente ampliati nel giro di pochi decenni. Fra il 1876 e il 1914, la Gran Bretagna aggiunse al suo già vastissimo impero 11 milioni di km2, con 142 milioni di abitanti (raggiungendo un totale di circa 30 milioni di km2, quasi cento volte la superficie del Regno Unito). Nello stesso periodo, la Francia acquistò nuovi possedimenti per 10 milioni di km2, con 50 milioni di abitanti. Alla competizione coloniale si unirono anche Stati privi di una tradizione imperiale o con una storia unitaria molto recente: così la Germania, malgrado l'iniziale scetticismo di Bismarck sull'utilità delle colonie, così il Belgio, l'Italia (fra le potenze europee, l'unica assente di rilievo fu l'Austria-Ungheria) e, negli ultimi anni del secolo, anche il Giappone e gli Stati Uniti.
Questi sviluppi si produssero in un lasso di tempo molto breve. Ancora a metà '800, le colonie non interessavano molto il grosso dell'opinione pubblica e delle classi dirigenti europee. Molti le consideravano nient'altro che un peso superfluo: lo stesso Disraeli, futuro campione dell'imperialismo britannico, nel 1852 parlava delle colonie come di "pietre legate al collo" del suo paese. Una generazione più tardi la situazione era completamente cambiata: la febbre coloniale dilagava in tutta Europa, coinvolgendo strati sempre più larghi dell'opinione pubblica e accomunando personaggi di ogni tendenza politica.
I fattori che stavano all'origine di questo mutamento erano numerosi e complessi. Gli interessi economici giocarono senza dubbio un ruolo notevole. C'era la spinta, tradizionale nella storia del colonialismo, all'accaparramento di materie prime a basso costo. C'era la ricerca di sbocchi commerciali, che era sempre stata uno dei moventi principali della politica coloniale e che venne assumendo un nuovo peso in coincidenza con la svolta protezionistica sui mercati europei. Più recente era la spinta proveniente dall'accumulazione di capitali finanziari disponibili per investimenti ad alto profitto nei territori d'oltremare. Questi aspetti - sui quali soprattutto si sono fondate le interpretazioni "economiche" dell'imperialismo - non devono però essere sopravvalutati: alla vigilia della prima guerra mondiale, la Gran Bretagna indirizzava verso le nuove colonie conquistate dopo il 1870 appena il 3% dei suoi investimenti all'estero, la Francia il 9%, la Germania una percentuale insignificante. Inoltre, anche nell'età dell'imperialismo e del protezionismo, il grosso del commercio mondiale si svolse fra i paesi industrializzati. Ciò non toglie nulla al fatto che proprio la prospettiva dei benefici economici ottenibili dalle colonie - teorizzati nelle opere di illustri economisti e continuamente evocati nei parlamenti e nella stampa - finì con l'influenzare in modo decisivo le scelte dei governanti europei.
Le motivazioni politico-ideologiche ebbero spesso un'importanza pari a quelle economiche. Esse affondavano le loro radici in una mescolanza di nazionalismo e di politica di potenza, di razzismo e di spirito missionario. In Inghilterra, ad esempio, l'idea di appartenere a una nazione eletta, a quella che Disraeli chiamava "una razza dominatrice, destinata dalle sue virtù a spargersi per il mondo", fu comune a scrittori come Thomas Carlyle e Rudyard Kipling e a uomini politici anche di estrazione liberale, come Joseph Chamberlain o come Charles Dilke, strenuo propagandista di una "più grande Bretagna" (Greater Britain). Il mito di una vocazione imperiale delle singole nazioni si legò a quello di una missione nel mondo della civiltà europea nel suo complesso. Il "fardello dell'uomo bianco" di cui parlava Kipling era appunto il dovere di redimere le "popolazioni selvagge". Un paternalismo non privo di componenti umanitarie si univa così a un razzismo di matrice positivistica.
L'interesse dell'opinione pubblica europea nei confronti delle colonie - già sollecitato dall'opera, per molti versi anticipatrice, dei missionari, da tempo impegnati nell'evangelizzazione dei popoli non cristiani - fu inoltre fortemente alimentato dall'eco delle grandi esplorazioni che, a partire dalla metà del secolo, ebbero per teatro soprattutto l'Africa. In questo interesse confluivano la prospettiva di grandi ricchezze nascoste nei territori da esplorare, la curiosità scientifico-geografica tipica della cultura del positivismo, la moda dell'esotismo presente in molta letteratura del secondo '800, l'alone romantico da cui erano circondate - grazie anche all'amplificazione che la stampa faceva delle loro imprese - le figure dei grandi esploratori: il missionario scozzese David Livingstone che, già all'inizio degli anni '50, esplorò per primo la zona dello Zambesi e, nei vent'anni successivi, attraversò tutta l'Africa centro-meridionale, dall'uno all'altro oceano; gli inglesi Burton e Speke che, intorno al 1860, raggiunsero le sorgenti del Nilo e aprirono la via dei grandi laghi equatoriali; il giornalista americano di origine inglese Henry Morton Stanley, che negli anni '70 esplorò, per incarico del re del Belgio, il bacino del Congo e pose le basi per la successiva conquista belga della regione (di cui divenne governatore); l'italo-francese Pietro Savorgnan di Brazzà che, nel decennio successivo, aprì la strada alla penetrazione francese in Africa equatoriale; il tedesco Karl Peters che, nello stesso periodo, esplorò l'Africa orientale per conto del governo tedesco.
Accanto ai motivi di fondo che abbiamo appena elencato - che avevano la loro origine nell'economia, nel sistema politico e nella cultura europea - agirono come stimoli all'azione coloniale anche fattori più occasionali determinati dalle specifiche realtà locali dei territori extraeuropei o dalla necessità di prevenire e controbattere le iniziative di potenze concorrenti, senza che ciò rispondesse a un piano di conquista prestabilito. Il risultato fu comunque che, alla fine del processo di espansione, il mondo intero risultò spartito in imperi e zone di influenza fra le maggiori potenze.
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