21.4 La grande strage (1915-16)
Al momento dell'entrata in guerra, era diffusa in Italia la convinzione che una rapida campagna militare sarebbe bastata per aver ragione degli avversari e per far volgere le sorti del conflitto a favore dell'Intesa. La realtà si incaricò ben presto di far fallire queste previsioni. Sul confine orientale le forze austro-ungariche, nettamente inferiori di numero, ripiegarono per pochi chilometri: quanto bastava per attestarsi sulle posizioni difensive più favorevoli, lungo il corso delll'Isonzo e sulle alture del Carso. Contro queste linee le truppe comandate dal generale
Luigi Cadorna sferrarono, nel corso del 1915, quattro sanguinose offensive (le prime quattro "battaglie dell'Isonzo") senza riuscire a cogliere alcun successo. Alla fine dell'anno, dopo aver perso quasi 250.000 uomini fra morti e feriti (fra cui buona parte degli ufficiali inferiori caduti alla testa dei loro reparti), l'esercito italiano si trovava a combattere sulle stesse posizioni su cui era schierato in giugno.
Una situazione analoga, su scala ancora più ampia, si era creata sul fronte francese. Anche qui gli schieramenti rimasero pressoché immobili per tutto il 1915: centinaia di migliaia di soldati furono sacrificati, in omaggio a una concezione ottocentesca delle battaglie, alla vana ricerca dell'attacco risolutivo. In quell'anno gli unici successi di qualche rilievo furono ottenuti sul fronte orientale dagli austro-tedeschi: prima contro i russi, che durante l'estate furono costretti ad abbandonare buona parte della Polonia; poi contro la Serbia che, attaccata simultaneamente in novembre da Austria e Bulgaria, fu invasa e cancellata dal novero dei contendenti.
All'inizio dell'anno successivo, i tedeschi ripresero l'iniziativa sul fronte occidentale, sferrando, nel febbraio 1916, un attacco in forze contro la piazzaforte francese di Verdun. Scopo dell'azione era non tanto la conquista dell'obiettivo, quanto il dissanguamento delle forze francesi. Ma la battaglia, durata quattro mesi e condotta dai tedeschi con uno spiegamento senza precedenti di artiglieria pesante, risultò troppo costosa anche per gli attaccanti, che ebbero perdite di poco inferiori a quelle degli avversari. I francesi riuscirono a resistere sino alla fine di giugno, quando gli inglesi organizzarono una controffensiva sulla Somme, presto trasformatasi in una nuova, estenuante battaglia di logoramento. Il tutto si risolse in una spaventosa carneficina, forse la più tremenda cui l'umanità avesse mai assistito in uno spazio così limitato: più di 600.000 uomini dei due schieramenti perirono fra febbraio e giugno nella sola battaglia di Verdun e quasi un milione ne caddero sulla Somme nei sei mesi successivi.
Nel giugno 1916, mentre si andava esaurendo l'offensiva tedesca contro Verdun, l'esercito austriaco passò all'attacco sul fronte italiano, tentando di penetrare dal Trentino nella pianura veneta e di spezzare in due lo schieramento nemico. Gli italiani furono colti di sorpresa dall'offensiva, che fu chiamata significativamente Strafexpedition (ossia spedizione punitiva contro l'antico alleato ritenuto colpevole di tradimento), ma riuscirono faticosamente ad arrestarla sugli altipiani di Asiago e successivamente a contrattaccare (durante questa azione cadde prigioniero degli austriaci Cesare Battisti, che fu condannato a morte per alto tradimento). L'Italia non subì alcuna perdita territoriale, ma il contraccolpo psicologico nel paese fu ugualmente fortissimo. Il governo Salandra fu costretto alle dimissioni e sostituito da un ministero di coalizione nazionale (comprendente cioè tutte le forze politiche, esclusi i socialisti) presieduto da Paolo Boselli. Il cambio di ministero non comportò però alcun mutamento nella conduzione militare della guerra. Nel corso dell'anno furono combattute altre cinque battaglie dell'Isonzo, tutte estremamente sanguinose e tutte prive di risultati tangibili, salvo quello, di valore morale più che strategico, della presa di Gorizia, avvenuta in agosto.
Meno statica, anche nel 1916, si presentava la situazione sul fronte orientale. A prendere l'iniziativa furono questa volta i russi che, sollecitati dagli alleati, lanciarono in giugno una violenta offensiva, riuscendo a recuperare buona parte dei territori perduti l'anno prima. I successi russi ebbero l'effetto di indurre la Romania a intervenire, in agosto, a fianco dell'Intesa. Ma l'intervento si risolse in un completo disastro: la Romania subì la stessa sorte della Serbia lasciando nelle mani dei nemici le sue considerevoli risorse agricole e minerarie (grano e petrolio).
Questo risultato non bastò a riequilibrare la situazione in favore degli imperi centrali, che restavano sempre inferiori all'Intesa per risorse economiche e per potenziale umano e subivano le conseguenze del ferreo blocco navale attuato dagli inglesi nel Mare del Nord. Invano, nel maggio 1916, la flotta tedesca aveva tentato un attacco contro quella inglese, in prossimità della penisola dello Jutland. Le perdite subite nella battaglia, per quanto inferiori a quelle degli avversari, furono tali da indurre i comandi a ritirare le navi nei porti, rinunciando definitivamente allo scontro in campo aperto. A questo si ridusse il contributo della flotta tedesca del Mare del Nord, la cui costruzione aveva rappresentato nell'anteguerra uno dei più gravi fattori di tensione internazionale.
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