5.7 Il pensiero socialista
La diffusione in Europa delle ideologie socialiste rappresentò una risposta al diffondersi del processo di industrializzazione, alla crescita del proletariato di fabbrica e alle nuove dimensioni assunte, in conseguenza di ciò, dalla questione sociale. Il nucleo centrale del pensiero socialista stava nella convinzione che, per superare i mali e le ingiustizie del capitalismo industriale (in particolare quelli inerenti alla condizione operaia) non era sufficiente la pratica delle riforme dall'alto, né tantomeno il ricorso alla carità e alle iniziative filantropiche. Era invece necessario colpire alla radice i princìpi informatori della società capitalistico-borghese (l'individualismo, la concorrenza, il profitto) e sostituirli con i valori della solidarietà e dell'uguaglianza, mettere sotto controllo i processi produttivi in modo da orientarli verso il soddisfacimento dei bisogni dell'intera collettività: costruire insomma una società completamente nuova, non solo nelle istituzioni politiche, ma anche e soprattutto nelle strutture economiche.
Per questa sua carica utopica, il pensiero socialista del primo '800 si collegava a progetti ed esperienze maturati nell'ambito della società preindustriale, in particolare alle correnti radicali ed egualitarie che si erano manifestate nel corso della prima rivoluzione inglese e della rivoluzione francese (gli "eguali"): queste ultime erano in parte confluite, attraverso l'opera di Buonarroti, nelle società segrete del periodo della Restaurazione. Rispetto a tali esperienze - e alle costruzioni teoriche dei secoli passati (come l'Utopia di Tommaso Moro o La città del sole di Campanella) - il socialismo ottocentesco si distingueva proprio per il suo costante riferirsi alla nuova realtà dell'industrialismo. Una realtà che veniva contestata nei suoi aspetti più ingiusti, ma era pur sempre accettata, nella maggior parte dei casi, come la principale base materiale su cui costruire la nuova società.
Il legame con i problemi della rivoluzione industriale è particolarmente evidente nell'esperienza di coloro che, sia pure per diversi motivi, possono essere considerati come i due principali antesignani del socialismo moderno: il francese Saint-Simon e l'inglese Owen. Robert Owen era un industriale cotoniero imbevuto di ideali illuministi e umanitari. Convinto che l'ambiente influisse in modo decisivo sulla formazione del carattere e che il sistema industriale avesse in sé le risorse per funzionare al meglio senza bisogno di sfruttare i lavoratori e di esasperare la concorrenza, cercò di mettere in pratica le sue idee, fra il 1800 e il 1825, facendo del suo stabilimento di New Lanark, in Scozia, una specie di azienda modello, con alti salari e assistenza agli operai anche fuori dalla fabbrica. Contemporaneamente fu tra i più attivi promotori di una nuova legislazione sociale che tutelasse i diritti delle masse lavoratrici. Dalla fine degli anni '20 - dopo aver tentato, e fallito, l'esperimento di una comunità socialista in un villaggio degli Stati Uniti - si dedicò prevalentemente all'organizzazione delle Trade Unions, cercando di promuoverne l'unificazione a livello nazionale. In una fase successiva, si fece promotore e organizzatore di cooperative di consumo fra i lavoratori, dando vita a un movimento che avrebbe conosciuto notevoli sviluppi soprattutto a partire dagli anni '50. Per queste sue iniziative nel campo dell'associazionismo - più ancora che per le sue teorie socialiste - Owen ebbe un ruolo di fondamentale importanza nella storia del movimento operaio inglese e mondiale.
Completamente diversa, ma non meno importante, fu l'esperienza intellettuale di Claude-Henri de Saint-Simon. Aristocratico formatosi nell'ancien régime (era nato nel 1760), Saint-Simon fu uno dei primi a capire appieno la novità dell'industrialismo e ad esaltarne le potenzialità di progresso. Negli ultimi anni della sua vita, fra il 1820 e il 1825, teorizzò l'avvento di una nuova società liberata da ogni forma di parassitismo e governata dai tecnici e dai produttori (termine con cui erano accomunati industriali e operai), in base a una logica puramente economica e nell'interesse dell'intera collettività. Le teorie di Saint-Simon, che non si possono definire socialiste in senso stretto, furono sviluppate dai suoi numerosi seguaci in direzioni diverse e contrastanti. Alcuni ne colsero gli aspetti capitalistici e tecnocratici e si impegnarono nelle attività bancarie e affaristiche (molti banchieri e imprenditori attivi nel periodo della monarchia di luglio, e poi durante il Secondo Impero napoleonico, erano di formazione sansimoniana). Altri (Bazard, Enfantin, Leroux, Buchez) le interpretarono in senso socialistico; e - riferendosi soprattutto all'ultima opera di Saint-Simon, intitolata Il nuovo cristianesimo - cercarono di fondare su di esse una vera e propria religione laica. In questa seconda versione, il sansimonismo esercitò una notevole influenza sul pensiero socialista successivo, ma anche su alcuni settori della sinistra democratica (ad esempio, i mazziniani).
Fu nella Francia di Luigi Filippo che il socialismo conobbe i suoi più ampi sviluppi teorici: anche se, in assenza di un movimento operaio già organizzato come quello che stava crescendo in Gran Bretagna, questi sviluppi assunsero spesso una connotazione decisamente utopistica. Il rappresentante più tipico di questa tendenza fu certamente Charles Fourier. Quella delineata nei suoi scritti, apparsi all'inizio degli anni '30, era un'utopia radicalmente anti-industriale (dunque lontana dalle idee dei sansimoniani), che mirava non solo ad assicurare un'equa distribuzione delle risorse, ma anche a risolvere il problema della felicità individuale attraverso una nuova concezione del lavoro. Per raggiungere questi obiettivi, Fourier pensava a una società organizzata in tante piccole comunità (i falansteri) autosufficienti dal punto di vista economico; comunità i cui componenti si sarebbero alternati nelle diverse attività lavorative in base alle loro inclinazioni.
Rigidamente collettivista - in quanto basata sulla proprietà statale dei mezzi di produzione e sullo stretto controllo pubblico su ogni aspetto della vita associata - era invece l'utopia tracciata nel Viaggio a Icaria (1842) di Etienne Cabet, che fu uno dei primi a usare il termine "comunismo". Comunista si definiva anche Auguste Blanqui, seguace di Buonarroti e instancabile organizzatore di trame rivoluzionarie per oltre un quarantennio. Diversamente da Fourier, da Cabet e dai sansimoniani, Blanqui si dedicò non tanto a descrivere la futura società socialista, quanto a studiare i mezzi per abbattere il sistema borghese tramite l'insurrezione che avrebbe consegnato il potere nelle mani del popolo: fu lui a elaborare per primo il concetto di "dittatura del proletariato", che sarebbe poi stato ripreso da Marx ed Engels.
Se Blanqui rappresentò l'anello di congiunzione fra la tradizione giacobina e il comunismo rivoluzionario, un altro francese, Louis Blanc, può essere considerato sotto molti aspetti il capostipite del socialismo riformista. Blanc era infatti convinto che la soluzione dei mali del capitalismo poteva venire solo da un intervento dello Stato come regolatore, e al limite come gestore in proprio, dei processi produttivi. Il primo e più importante intervento doveva consistere nella creazione di ateliers sociaux (officine sociali) che avrebbero avuto il doppio scopo di combattere la disoccupazione e di soppiantare progressivamente le imprese private.
Un posto a parte nel panorama del primo socialismo francese è occupato infine da Pierre-Joseph Proudhon, che divenne celebre nel 1840 per un saggio intitolato Che cos'è la proprietà? (la risposta, provocatoria, era: "la proprietà è un furto"). Successivamente Proudhon sviluppò il suo pensiero in direzione di un cooperativismo a sfondo anarchico più che socialista (anzi, duramente polemico nei confronti del socialismo "statalista" comune a Blanc, ai sansimoniani e, più tardi, ai marxisti), destinato a esercitare una certa influenza su strati consistenti del movimento operaio europeo.
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