32.8 Le scelte internazionali
Frutto di negoziati protrattisi per più di un anno, il trattato di pace fra l'Italia e gli alleati fu firmato a Parigi nel febbraio 1947 e ratificato dalla Costituente nel luglio dello stesso anno. L'Italia vi era considerata a tutti gli effetti come una nazione sconfitta: doveva dunque impegnarsi a pagare riparazioni (di entità peraltro abbastanza contenuta) agli Stati che aveva attaccato (Russia, Grecia, Jugoslavia, Albania, Etiopia) e a ridurre la consistenza delle sue forze armate. Rinunciava inoltre a tutte le colonie, già perdute durante la guerra (nel '50 avrebbe ottenuto, per un decennio, l'amministrazione fiduciaria sulla Somalia). Tale rinuncia non suscitò eccessivi rimpianti nell'opinione pubblica, che invece seguì con notevole partecipazione le vicende relative ai nuovi confini nazionali. A ovest l'Italia non subì mutilazioni di rilievo, salvo alcune rettifiche secondarie (Briga, Tenda e il Moncenisio) a favore della Francia. A nord poté avvantaggiarsi della posizione di inferiorità dell'Austria per mantenere l'Alto Adige (impegnandosi però, con gli accordi De Gasperi-Gruber del '46, a concedere ampie autonomie amministrative e linguistiche alla provincia di Bolzano). I problemi più delicati si presentarono sul confine orientale, dove gli jugoslavi avevano occupato nel '45 buona parte della Venezia Giulia e rivendicavano la stessa Trieste.
Alla fine del '46 fu attuata una sistemazione provvisoria, che lasciava alla Jugoslavia la penisola istriana, eccettuata una striscia comprendente Trieste e Capodistria, che avrebbe dovuto costituire il Territorio libero di Trieste. Il Territorio fu a sua volta diviso in una zona A (Trieste e dintorni) occupata dagli alleati e in una zona B tenuta dagli jugoslavi. Solo nell'ottobre 1954, dopo momenti di forte tensione fra Italia e Jugoslavia, si giunse a una spartizione di fatto, che sanciva il controllo jugoslavo sulla zona B e il passaggio dall'amministrazione alleata a quella italiana della zona A, ossia di Trieste, che veniva così riunita all'Italia. Ma sarebbero passati ancora più di vent'anni perché si giungesse a un accordo (il trattato di Osimo del novembre 1975), con cui le due parti si riconoscevano reciprocamente la sovranità sui territori in questione.
Certo, la questione di Trieste e della Venezia Giulia rappresentò nel primo decennio postbellico la ferita più dolorosa fra quelle lasciate aperte dalla guerra. Il contrasto fra italiani e slavi - esasperato durante il fascismo dalla dura repressione contro le minoranze etniche condotta dal regime - era riesploso alla fine della guerra, nelle zone occupate dagli jugoslavi, con una serie di sanguinose vendette contro gli italiani. Un gran numero di giuliani e dalmati (fra i due e i trecentomila) erano stati costretti a riparare in Italia, contribuendo a tener desta la polemica contro il trattato di pace. Il problema di Trieste divenne così un fattore di mobilitazione per l'opinione pubblica moderata e si intrecciò con le divisioni create dalla guerra fredda (fino alla rottura fra Tito e Stalin, nel '48, la frontiera fra Italia e Jugoslavia coincise con quella fra Occidente e blocco comunista).
A differenza, però, di quanto era accaduto dopo la prima guerra mondiale, il problema del confine orientale non giunse a rappresentare il nodo centrale della politica estera italiana. Per un paese sconfitto, economicamente debole e privo di qualsiasi autonoma forza militare, il problema capitale era quello della scelta di campo fra i due blocchi che si fronteggiavano in Europa. La scelta dell'Italia, in buona parte condizionata da fattori esterni (l'appartenenza alla zona di occupazione anglo-americana, gli accordi fra le grandi potenze sulle aree di influenza), diventò netta ed esplicita dopo l'estromissione delle sinistre dal governo e l'accettazione del piano Marshall, per essere poi sancita dall'elettorato il 18 aprile 1948. Non era però affatto scontato che questa scelta di campo dovesse tradursi in un'alleanza militare. Così, quando, alla fine del '48, furono gettate le basi per il Patto atlantico, la proposta di partecipazione rivolta dagli Stati Uniti all'Italia suscitò non solo la dura opposizione di socialisti e comunisti, ma anche le perplessità di una parte del mondo cattolico e dei partiti laici di centro-sinistra. Prevalse alla fine la volontà di De Gasperi e del ministro degli Esteri Carlo Sforza, che vedevano nell'alleanza soprattutto uno strumento per garantire all'Italia una più stretta integrazione con l'Occidente. E l'adesione al Patto atlantico fu approvata dal Parlamento, dopo un acceso dibattito, nel marzo 1949. Col passare degli anni, la scelta atlantica sarebbe stata accettata anche da molte delle forze che l'avevano inizialmente contestata e sarebbe rimasta fino ai nostri giorni un punto fermo della politica estera italiana.
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