5.4 La formazione della classe operaia
Lo sviluppo e la diffusione dell'industria moderna provocarono in tutti i paesi coinvolti in questo processo profonde trasformazioni anche al livello della struttura sociale. Al concetto di ceto, legato alla posizione occupata per nascita o al godimento di particolari diritti, si venne sostituendo quello di classe sociale, definito soprattutto in rapporto al ruolo svolto nel processo produttivo in una società che, almeno dal punto di vista formale, tendeva ad assicurare l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. L'antagonismo fondamentale che si veniva profilando non era più quello fra l'aristocrazia e il popolo (ossia fra i titolari di privilegi e di rendite ereditarie e tutti coloro che per vivere dovevano fare assegnamento solo sulle proprie risorse personali, piccole o grandi che fossero), ma quello fra il
borghese, proprietario dei mezzi di produzione, e il lavoratore salariato, ricco soltanto della forza delle sue braccia e della sua capacità di riprodursi: il
proletario, come lo si cominciò a chiamare nei primi decenni dell'800, con un termine di origine latina (nell'antica Roma proletarius era chi apparteneva all'ultima delle classi in cui era diviso il popolo, quella che non deteneva altra ricchezza se non la propria prole).
Nei paesi dell'Europa continentale questo dualismo cominciava appena a delinearsi e, fino alla metà del secolo, era ancora oscurato dalla prevalenza numerica di altre figure sociali e dalla presenza di altri antagonismi (primo fra tutti quello fra aristocratici e borghesi). Imprenditori e salariati erano invece protagonisti del confronto sociale in Gran Bretagna: qui la borghesia svolgeva, già negli anni '30 e '40, un ruolo politico di primo piano (pur se non ancora preponderante), una parte della stessa aristocrazia tendeva a "imborghesirsi" e a farsi imprenditrice, lo sviluppo della grande fabbrica stava concentrando in alcune città industriali una massa operaia sempre più consistente e agguerrita. Nel 1850, i lavoratori impiegati nelle manifatture e nelle fabbriche inglesi assommavano a 3.250.000. Il solo settore tessile - quelle col più alto numero di addetti e col più alto livello di meccanizzazione - impiegava oltre un milione di operai (fra i quali erano compresi tuttavia molti lavoranti a domicilio).
Quella dell'operaio di fabbrica era una figura sociale nuova in tutti i sensi. Nuova perché di formazione recente, risultato di un processo continuo che vedeva muovere verso l'impiego nell'industria un numero crescente di ex lavoratori agricoli "espulsi" dalle campagne e di ex lavoranti di botteghe artigiane e piccole manifatture rovinate dalla concorrenza della grande fabbrica. Ma nuova anche per le sue caratteristiche, che ne facevano qualcosa di completamente diverso dalla figura dell'operaio tradizionale (l'artigiano indipendente, l'apprendista, il lavorante a domicilio che alternava la tessitura col telaio al lavoro nei campi).
Al contrario dell'artigiano indipendente, il proletario di fabbrica non possedeva i suoi strumenti di lavoro. Ma non possedeva - o comunque non poteva utilizzare - nemmeno quel bagaglio di abilità e di cognizioni tecniche, di "segreti del mestiere", che le antiche organizzazioni corporative conservavano e si tramandavano. Esisteva, anche nella grande fabbrica, la figura dell'operaio specializzato, addetto a mansioni particolarmente qualificate. Ma il grosso del lavoro era di tipo meccanico e ripetitivo e in molti casi poteva essere svolto anche da donne e ragazzi, che in effetti erano impiegati in modo massiccio, soprattutto nell'industria tessile.
Nella fabbrica moderna l'operaio era poco più che un'appendice della macchina. I suoi ritmi di lavoro erano modellati su quelli della macchina e - prima che la legislazione sociale intervenisse a porre un argine alle possibilità di sfruttamento della manodopera - trovavano un limite solo nella sua resistenza fisica: orari di 12-15 ore giornaliere costituivano ovunque la regola. Quanto ai salari, essi erano fissati in base alla legge della domanda e dell'offerta. E, poiché l'offerta di lavoro - alimentata dall'emigrazione dalle campagne - era normalmente superiore alla domanda, le retribuzioni tendevano ad assestarsi al livello più basso e ad avvicinarsi (salvo che per le minoranze qualificate) al livello indispensabile alla pura e semplice sussistenza.
Da tutto ciò derivavano, per la gran massa dei lavoratori dell'industria, condizioni di vita estremamente disagiate. Il pochissimo tempo lasciato libero dal lavoro di fabbrica, gli operai lo vivevano ammassati in soffitte e cantine di edifici vecchi e fatiscenti, oppure nei nuovi quartieri-dormitorio tirati su in fretta nelle periferie dei centri industriali, in una situazione di cronico sovraffollamento e di igiene quanto mai precaria: il che, unito ai ritmi di lavoro massacranti e a un'alimentazione generalmente povera di sostanze nutritive, determinava un tasso di mortalità molto più elevato di quello della media della popolazione urbana.
Il fatto che il lavoro in fabbrica rappresentasse per molti un'alternativa alla fame o alla pubblica carità e che il livello medio delle retribuzioni nell'industria risultasse, nonostante tutto, superiore a quello dei lavoratori agricoli non toglieva nulla alla drammaticità di una condizione tanto dura da apparire inumana anche agli occhi di molti osservatori contemporanei. Da questa realtà derivava, da un lato, l'impulso delle classi dirigenti a farsi carico in qualche misura - seppur in forme sostanzialmente paternalistiche - degli aspetti più gravi della questione operaia (si pensi alle leggi sociali varate in Gran Bretagna negli anni '30 e '40); dall'altro, la spinta degli operai stessi ad associarsi fra loro e a ribellarsi alla propria condizione: una tendenza favorita dal fatto di lavorare in grandi unità produttive e di vivere a stretto, continuo contatto gli uni con gli altri.
I primi episodi di ribellione contro il sistema di fabbrica avevano assunto la forma del luddismo, ossia della violenza contro le macchine. Questo tipo di protesta, che in Gran Bretagna aveva accompagnato le prime fasi della rivoluzione industriale, si era esaurito dopo aver raggiunto il culmine negli anni fra il 1810 e il 1815. Nel decennio successivo gli operai inglesi, guidati per lo più da leader democratico-radicali, avevano cominciato a sperimentare forme di agitazione pacifica (manifestazioni, comizi, scioperi) in cui le rivendicazioni economiche si mescolavano a quelle politiche; e avevano lottato per ottenere l'abrogazione di quelle leggi (Combination Acts) che - in Gran Bretagna come in altri paesi - dichiaravano illegali le associazioni fra i prestatori d'opera e proibivano il ricorso allo sciopero. Da queste lotte - in parte coronate da successo grazie alla legge del 1824 che legalizzava le associazioni operaie (
4.5) - nacquero le prime Trade Unions, nucleo originario di un movimento sindacale destinato a grandi sviluppi.
Nei paesi dell'Europa continentale, il processo di formazione del proletariato di fabbrica e di crescita delle organizzazioni operaie fu naturalmente molto più lento. In Francia e in Germania, attorno alla metà del secolo, gli occupati nell'industria erano circa un quarto della popolazione attiva (mentre già raggiungevano il 50% in Gran Bretagna). E, in realtà, in questa percentuale era compresa una quota consistente di addetti alle tradizionali attività artigiane. In Germania la principale forma associativa era ancora costituita dalle corporazioni di mestiere; mentre in Francia cominciavano a svilupparsi le cooperative e le società di mutuo soccorso, volte non tanto a difendere i diritti dei lavoratori nei confronti dei padroni, quanto a soccorrerli in caso di malattie o di improvvise necessità economiche.
Tuttavia, anche nei paesi "secondi arrivati" sulla via dell'industrializzazione, la questione operaia si venne sempre più imponendo all'attenzione dell'opinione pubblica e delle classi dirigenti. L'addensarsi di masse proletarie numerose e compatte in alcuni fra i maggiori centri urbani, e soprattutto nelle capitali, suscitava ovunque diffuse preoccupazioni di ordine igienico-sanitario, crescenti timori per l'ordine pubblico, ma anche reazioni di tipo moralistico: nelle periferie operaie dilagavano infatti l'alcolismo e la prostituzione, aumentavano le nascite illegittime, salivano gli indici della criminalità. Si diffondeva fra i ceti urbani benestanti l'equazione fra classi lavoratrici e "classi pericolose". D'altro canto, cresceva il numero di coloro che individuavano nella classe operaia non solo la principale vittima di un ordine sociale ingiusto, ma anche la maggiore protagonista di un processo rivoluzionario destinato a dar vita a un nuovo assetto economico e politico. Proprio negli anni '30 e '40, come vedremo fra poco, si svilupparono, soprattutto in Francia e in Germania, le prime ideologie socialiste moderne, nate cioè dall'impatto con la società industriale.
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