20.3 Decollo industriale e progresso civile
A partire dagli ultimi anni del secolo scorso, l'Italia conobbe, dopo i primi incerti passi compiuti negli anni '80, il suo primo autentico decollo industriale. Se l'economia italiana poté inserirsi nella congiuntura internazionale favorevole cominciata nel 1896 ciò fu dovuto anche ai progressi che, pur fra battute d'arresto e contraddizioni, il paese era venuto realizzando nei primi trenta-quarant'anni di vita unitaria sul piano delle infrastrutture economiche e delle strutture produttive. La costruzione di una rete ferroviaria, avviata negli anni della Destra, aveva favorito i processi di commercializzazione dell'economia. La scelta protezionistica del 1887 aveva reso possibile la creazione, sia pure a costi molto alti, di una moderna industria siderurgica. Infine, il riordinamento del sistema bancario attuato dopo la crisi della Banca romana aveva creato una struttura finanziaria abbastanza solida ed efficiente. Particolare importanza ebbe la costituzione, avvenuta nel 1894 con l'incoraggiamento dello Stato e con l'apporto di capitali tedeschi, di due nuovi istituti di credito, la Banca commerciale e il Credito italiano, entrambi ispirati al modello della "banca mista" (
8.3). Le nuove banche svolsero una funzione decisiva nel facilitare l'afflusso del risparmio privato verso gli investimenti industriali, soprattutto nei settori più moderni.
Furono appunto questi settori che fecero registrare i maggiori progressi. La siderurgia, la più favorita dalle tariffe dell'87, vide la creazione, accanto alle Acciaierie di Terni, di numerosi nuovi impianti per la lavorazione del ferro (i più importanti sorsero a Savona, a Piombino e a Bagnoli, presso Napoli). Tutto il settore era dominato da poche grandi società, strettamente legate ai maggiori istituti bancari e dipendenti in larga misura dalle commesse statali (rotaie per le ferrovie, corazze per le navi da guerra). Nel settore tessile, che restava sempre il più importante per quantità di stabilimenti e per numero di addetti, i maggiori progressi si ebbero nell'industria cotoniera, anch'essa altamente meccanizzata e favorita dalle tariffe doganali. Nel settore agro-alimentare si assisté alla crescita rapidissima di un'altra industria protetta, quella dello zucchero.
Ma sviluppi interessanti si ebbero anche in settori che non erano favoriti dalle tariffe doganali, come quello chimico (soprattutto l'industria della gomma, che aveva il suo centro principale negli stabilimenti Pirelli di Milano) o addirittura ne erano svantaggiati, come quello meccanico: quest'ultimo si giovò dell'accresciuta richiesta di materiale ferroviario, di navi e di armamenti da parte dello Stato, nonché della domanda di macchinari indotta dal complesso dello sviluppo industriale. Il principale fatto nuovo nel campo della meccanica fu però costituito dall'affermazione dell'industria automobilistica, dove, nonostante la ristrettezza del mercato interno (le automobili erano allora riservate a pochissimi privilegiati), riuscirono a svilupparsi numerose aziende: alcune, di dimensioni semiartigianali, scomparvero nel giro di pochi anni; altre - come la Fiat di Torino, fondata nel 1899 da Giovanni Agnelli - riuscirono a consolidarsi per poi acquistare, a partire dalla grande guerra, una posizione di preminenza nel mondo industriale italiano. Un discorso a parte va fatto, infine, per l'industria elettrica, che in Italia aveva mosso i primi passi già negli anni '80 (quando a Milano era stata realizzata una delle prime centrali elettriche del mondo) e che conobbe un significativo boom all'inizio del '900, passando da una produzione di circa 100 milioni di chilowattora nel 1898 a oltre due miliardi e mezzo nel 1914.
In termini complessivi, i progressi realizzati dall'industria italiana furono più che ragguardevoli. Fra il 1896 e il 1907 il tasso medio di crescita annua fu del 6,7%, superiore a quello di qualsiasi altro paese europeo nello stesso periodo. Fra il 1896 e il 1914, il volume della produzione industriale risultò quasi raddoppiato, mentre la quota dell'industria nella formazione del prodotto nazionale, che fra il 1880 e il 1900 era rimasta pressoché stazionaria attorno al 20%, passò nel 1914 al 25% circa, contro il 43% dell'agricoltura.
Il decollo industriale dell'inizio del '900 fece sentire i suoi effetti anche sul tenore di vita della popolazione. Nel primo quindicennio del secolo, il redditopro-capite degli italiani aumentò, come già si è accennato, di quasi il 30% (mentre era rimasto pressoché invariato nei precedenti quarant'anni). Questo aumento consentì a vasti strati di cittadini di destinare una quota crescente dei bilanci familiari - fin allora assorbiti in misura schiacciante dalle spese per l'alimentazione - alla casa, ai trasporti, all'istruzione, alle attività ricreative e soprattutto all'acquisto di beni di consumo durevoli: in primo luogo utensili domestici, ma anche biciclette, macchine da cucire e altri prodotti della moderna tecnologia che fecero allora la prima timida comparsa sul mercato nazionale.
Era insomma la "qualità della vita" degli italiani che cominciava a mutare, sia pur lentamente e parzialmente, di pari passo con lo sviluppo economico. I segni di questo mutamento erano visibili soprattutto nelle città, ancora piccole rispetto alle maggiori metropoli europee (Roma, per esempio, contava nel 1906 poco più di 500.000 abitanti contro i quasi tre milioni di Parigi), ma ad esse più simili che in passato, grazie soprattutto allo sviluppo dei servizi pubblici - illuminazione, trasporti urbani, gas domestico, acqua corrente - gestiti non di rado dagli stessi comuni tramite apposite aziende "municipalizzate". Le condizioni abitative dei lavoratori urbani restavano ancora precarie, nonostante il varo delle prime iniziative organiche di edilizia popolare da parte dei governi e delle amministrazioni locali. Le case operaie erano per lo più malsane e sovraffollate. Gli appartamenti dotati di servizi igienici autonomi restavano un'eccezione nelle grandi città (e un'autentica rarità nei centri rurali). Il riscaldamento centralizzato era un lusso. Ma la diffusione dell'acqua corrente nelle case e il miglioramento delle reti fognarie costituirono un progresso di non poco conto, contribuendo in modo decisivo alla forte diminuzione della mortalità da malattie infettive (colera, tifo e, in genere, affezioni gastroenteriche) che si verificò nel primo quindicennio del secolo. Anche la mortalità infantile - indicatore fra i più importanti dell'arretratezza economica e civile - fece registrare un notevole calo portandosi su percentuali (13% nel 1914) meno lontane che in passato da quelle dei paesi più avanzati.
Questi progressi tuttavia non furono sufficienti a colmare il divario che ancora separava l'Italia dagli Stati più ricchi e più industrializzati. Alla vigilia della guerra mondiale il reddito pro-capite era circa la metà di quello tedesco. L'analfabetismo era ancora molto elevato (37% nel 1911), mentre si avviava a scomparire in tutta l'Europa del Nord. Il consumo annuo di carne di ogni italiano era di tre volte inferiore a quello di un inglese. La quota della popolazione attiva impiegata nelle campagne era ancora del 55% (mentre era del 40% in Francia, del 35% in Germania e addirittura dell'8% in Inghilterra): una quota troppo alta per le capacità produttive dell'agricoltura italiana, com'era dimostrato dal fatto che l'emigrazione verso l'estero, anziché diminuire in coincidenza con lo sviluppo economico, crebbe fino a raggiungere la cifra impressionante di 870.000 partenze nel solo 1913, per un totale di circa 8 milioni (di cui almeno 2 milioni a carattere permanente) fra il 1900 e il 1914.
Tutte le regioni italiane parteciparono al fenomeno migratorio. Ma il contributo più rilevante, in rapporto alla popolazione, venne dal Mezzogiorno. Inoltre, mentre l'emigrazione dalle regioni centro-settentrionali era soprattutto temporanea e diretta verso i paesi europei, quella meridionale si indirizzava in prevalenza verso il Nord America e aveva per lo più carattere permanente. Dal punto di vista economico, il fenomeno migratorio ebbe alcuni effetti positivi: non solo perché allentò la pressione demografica, creando un rapporto più favorevole fra popolazione e risorse e attenuando tensioni sociali altrimenti insostenibili, ma anche perché le rimesse degli emigranti (ossia i risparmi inviati dai lavoratori all'estero alle famiglie in patria) alleviarono il disagio delle zone più depresse e risultarono di non poco giovamento all'economia dell'intero paese. D'altra parte, un'emigrazione così massiccia rappresentò un impoverimento, in termini di forza-lavoro e di energie intellettuali, per la comunità nazionale: soprattutto per la società del Mezzogiorno che, privata di molti fra i suoi elementi più giovani e intraprendenti, vedeva allontanarsi i tempi del suo riscatto economico e civile.
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