17.7 La questione femminile
L'epoca che vide il sorgere della società di massa fu anche quella che registrò l'emergere - in forme ancora frammentarie e minoritarie - di una "questione femminile". Il problema dell'inferiorità economica, politica e giuridica delle donne era rimasto, con poche eccezioni (fra cui va ricordata quella di John Stuart Mill, autore nel 1869 di un libro Sulla schiavitù della donna), estraneo agli orizzonti del pensiero liberale e democratico ottocentesco. I primi movimenti di emancipazione femminile, nati alla fine del '700 nella Francia giacobina e nell'Inghilterra della rivoluzione industriale, avevano avuto scarsissimo seguito ed erano stati subito dimenticati. Alla fine dell'800 le donne erano escluse dappertutto dall'elettorato attivo e passivo e, in molti paesi, anche dalla possibilità di accedere agli studi universitari e alle professioni. Quando lavoravano, ricevevano un trattamento economico nettamente inferiore a quello degli uomini.
Per la maggior parte delle donne, quella del lavoro extradomestico non era una consapevole scelta di emancipazione, ma piuttosto una dura necessità, quasi una naturale prosecuzione del lavoro svolto da sempre nei campi o entro le pareti di casa; e non significava nemmeno la liberazione dai tradizionali obblighi familiari. Tuttavia i maggiori contatti col mondo esterno, le esperienze collettive, la partecipazione alle agitazioni sociali (in tutti i paesi industrializzati la manodopera femminile fu protagonista di episodi salienti della lotta sindacale) portarono le donne lavoratrici a una più viva coscienza dei loro diritti e delle loro rivendicazioni nei confronti dell'intera società.
Ciononostante, il movimento per l'emancipazione femminile rimase in questo periodo ristretto a minoranze operaie e intellettuali, a circoli e leghe prive di un seguito consistente. Solo in Gran Bretagna il movimento femminile, sotto la guida di Emmeline Pankhurst - fondatrice nel 1902 della Women's Social and Political Union - riuscì a imporsi all'attenzione dell'opinione pubblica e della classe dirigente, concentrando la sua attività nell'agitazione per il diritto al suffragio (donde il nome di suffragette dato alle sue militanti) e ricorrendo non di rado a forme di protesta quanto mai decise: dimostrazioni di piazza, marce sul Parlamento, scioperi della fame e anche attentati a edifici pubblici.
La lotta delle suffragette - che nel 1918 avrebbe portato, in Gran Bretagna, alla concessione del voto alle donne - trovò qualche appoggio tra i parlamentari laburisti. Nel complesso, però, il movimento operaio non si mostrò troppo sensibile nei confronti delle rivendicazioni femministe. Molti dirigenti socialisti guardavano con sospetto al voto alle donne, perché temevano che ciò avrebbe significato, almeno a breve scadenza, un vantaggio per i partiti di ispirazione cristiana. Diffusa era poi, fra i socialisti, la tendenza a privilegiare gli aspetti economico-retributivi del problema del lavoro femminile, o a vederne la soluzione nel ritorno delle donne ai loro compiti "naturali" in seno alla famiglia. Certo è che quasi dappertutto i movimenti femminili furono lasciati soli a combattere le loro battaglie, ricevendo tutt'al più qualche generico incoraggiamento. Allo scoppio della prima guerra mondiale, le donne europee avevano visto cadere alcune delle preclusioni più gravi, relative all'istruzione superiore e all'accesso alle professioni; ma restavano ancora escluse dal diritto di voto (salvo che in Norvegia e Finlandia) e pesantemente discriminate sui luoghi di lavoro.
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