22.3 Dittatura e guerra civile
Se era stato relativamente facile per i bolscevichi impadronirsi del potere centrale, molto più difficile - per un partito che contava nel novembre '17 circa 70.000 iscritti su una popolazione di oltre 150 milioni di abitanti - si presentava il compito di gestire questo potere, di amministrare un paese immenso, di governare una società tanto complessa quanto arretrata, di affrontare i tremendi problemi ereditati dal vecchio regime, primo fra tutti quello della guerra. Un compito reso ancor più difficile dal fatto che i bolscevichi non potevano contare né sull'appoggio delle altre forze politiche né sulla collaborazione degli strati sociali più elevati: ufficiali e tecnici, imprenditori e intellettuali, molti dei quali abbandonarono il paese, assieme a numerosi esponenti dell'aristocrazia, dando vita al più imponente fenomeno di emigrazione politica mai verificatosi fin allora (oltre un milione di esodi volontari fra il '18 e il '26).
Convinti di poter conquistare in tempi brevi l'appoggio compatto delle masse popolari, i leader bolscevichi speravano di poter procedere rapidamente alla costruzione di un nuovo Stato proletario ispirato all'esperienza della Comune di Parigi, secondo il modello delineato da Lenin in una delle sue opere più famose, Stato e rivoluzione. In quel saggio, scritto alla vigilia della rivoluzione d'ottobre, Lenin riprendeva la definizione di Marx sullo Stato come strumento del dominio di una classe sulle altre e prevedeva che, una volta scomparso questo dominio, lo Stato stesso si sarebbe avviato verso una rapida estinzione. Nella società socialista non vi sarebbe stato bisogno di parlamenti e di magistratura, di eserciti e di burocrazia, ma le masse stesse si sarebbero autogovernate secondo i princìpi di democrazia diretta sperimentati nei soviet.
Per quanto riguardava la guerra, l'ipotesi su cui puntavano i bolscevichi era quella di una sollevazione generale dei popoli europei, da cui sarebbe scaturita una pace equa, "senza annessioni e senza indennità". Ma questa ipotesi non si realizzò. E i capi rivoluzionari, che non potevano deludere le attese di pace da loro stessi incoraggiate, si trovarono a trattare in condizioni di grave inferiorità con una potenza che già occupava vaste zone dell'ex Impero russo. La pace separata con la Germania, che fu conclusa il 3 marzo 1918 con la firma del durissimo trattato di Brest-Litovsk (
21.11), era dunque per i bolscevichi l'unica scelta realistica. Per imporla Lenin dovette tuttavia superare le perplessità di alcuni fra i suoi stessi compagni di partito e la violenta opposizione dei socialrivoluzionari, compresa la corrente di sinistra che ritirò i suoi rappresentanti dal Consiglio dei commissari del popolo. I bolscevichi perdevano così i loro unici alleati e rimanevano completamente isolati.
Gravissime furono poi le conseguenze del trattato a livello dei rapporti internazionali. Le potenze dell'Intesa, ancora impegnate in una lotta durissima contro gli imperi centrali e preoccupate di un possibile "contagio" rivoluzionario, considerarono la pace di Brest-Litovsk come un tradimento e, in risposta, cominciarono ad appoggiare concretamente le forze antibolsceviche che, già dalla fine del '17, si erano andate organizzando in varie zone del paese, per lo più sotto la guida di ex ufficiali zaristi. Fra la primavera e l'estate del 1918 si ebbero sbarchi di truppe anglo-francesi prima nel Nord della Russia e poi sulle coste del Mar Nero, mentre reparti statunitensi e giapponesi penetravano nella Siberia orientale. L'arrivo dei contingenti stranieri servì a rafforzare l'opposizione al governo bolscevico - soprattutto quella dei monarchico-conservatori, i cosiddetti bianchi - e ad alimentare la guerra civile in diverse zone del paese.
La prima minaccia venne dall'Est, dove l'ammiraglio zarista Kolciak assunse il controllo di vasti territori della Siberia penetrando, nell'estate del '18, nella zona fra gli Urali e il Volga: fu in questa circostanza che lo zar e tutta la sua famiglia, prigionieri nella città di Ekaterinenburg, furono giustiziati per ordine del soviet locale nel timore che fossero liberati dai controrivoluzionari. Altri focolai di ribellione si andavano frattanto sviluppando nel Nord della Russia, dove più forte era la presenza di truppe dell'Intesa (questa minaccia indusse il governo a decidere il trasferimento, poi diventato definitivo, della capitale da Pietrogrado a Mosca) e soprattutto nella regione del Don dove, oltre alle truppe bianche guidate dal generale Denikin, era attivo un movimento di guerriglia guidato dai socialrivoluzionari. Ancora più caotica era la situazione in Ucraina, diventata nominalmente uno Stato indipendente sotto il protettorato tedesco.
Per far fronte a tutte queste minacce il regime rivoluzionario fu indotto ad accentuare i suoi tratti autoritari, lasciando da parte le utopie antimilitariste e i progetti di autogoverno popolare. Si era cominciato, già nel dicembre '17, con la creazione di una polizia politica, la Ceka. Nello stesso periodo era stato istituito un Tribunale rivoluzionario centrale, col compito di processare chiunque disubbidisse al "governo operaio e contadino": una formulazione molto ampia, che permetteva di perseguire anche quegli oppositori, come i menscevichi, ai quali non poteva imputarsi nessuna forma di contestazione violenta. Nel giugno 1918 tutti i partiti d'opposizione vennero messi fuori legge e fu reintrodotta la pena di morte che era stata abolita subito dopo la rivoluzione d'ottobre.
Si procedeva frattanto alla riorganizzazione dell'esercito, ricostituito ufficialmente nel febbraio '18 col nuovo nome di Armata rossa degli operai e dei contadini. Artefice principale dell'operazione fu Trotzkij che, servendosi anche di ufficiali del vecchio esercito zarista, fece di quella che avrebbe dovuto essere una milizia popolare una potente macchina da guerra, fondata su una ferrea disciplina. Ad assicurare la lealtà al governo rivoluzionario provvedevano figure di nuova istituzione, i commissari politici, distaccati dal partito presso le singole unità combattenti. La creazione di un esercito efficiente, assieme alla solidarietà delle masse contadine, che temevano il ritorno del regime zarista, consentì alla Russia bolscevica di sopravvivere allo scontro con i suoi numerosi nemici: uno scontro che si protrasse per più di due anni, con perdite gravissime da ambo le parti e sofferenze inaudite per l'intera popolazione, e che all'inizio sembrava perduto in partenza per il nuovo regime, le cui forze erano nettamente inferiori a quelle avversarie sul piano dell'armamento e dell'equipaggiamento. Nella primavera del '20, a parte qualche residua sacca di resistenza, le armate bianche erano sconfitte e la fase più acuta della guerra civile poteva considerarsi esaurita.
Ma proprio nel momento in cui trionfava sui suoi nemici interni, il regime bolscevico dovette subire un inatteso attacco esterno. A sferrarlo, nell'aprile del 1920, fu la nuova Repubblica di Polonia. I governanti polacchi, insoddisfatti dei confini definiti a Versailles, decisero di profittare della debolezza del nuovo regime rivoluzionario appena uscito dalla guerra civile per recuperare i territori appartenuti alla "grande Polonia" due o tre secoli prima. Fra maggio e giugno l'esercito polacco dilagò entro i confini russi. La reazione dei bolscevichi fu rapida ed efficace. Ai primi di agosto, dopo una travolgente avanzata, l'Armata rossa giunse fino alle porte di Varsavia. Parve in quel momento che i bolscevichi russi fossero sul punto di seguire l'esempio dei giacobini francesi, affidando ai loro eserciti il compito di diffondere la rivoluzione in Europa. Ma, a fine agosto, una controffensiva polacca costrinse i russi a una precipitosa ritirata.
Si giunse infine (dicembre 1920) alla conclusione di un armistizio e quindi alla pace, nel marzo 1921. La Polonia vide in parte accontentate le sue aspirazioni territoriali, incorporando ampie zone della Bielorussia e dell'Ucraina. La guerra contro l'aggressione straniera aveva comunque accresciuto in Russia il senso di coesione nazionale, riavvicinando molti oppositori al regime sovietico, ormai identificato con una nuova "patria socialista".
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