22.5 Il comunismo di guerra
Quando i comunisti presero il potere, l'economia russa si trovava già in uno stato di gravissimo dissesto, che la rivoluzione e le devastazioni della guerra civile finirono col rendere ancor più completo. La socializzazione della terra si risolse nella creazione di una miriade di piccole aziende che producevano soprattutto per l'autoconsumo e non contribuivano all'approvvigionamento delle città. Molte industrie furono lasciate in mano ai vecchi imprenditori, ma sotto la sorveglianza dei consigli operai; altre furono gestite direttamente dai lavoratori; altre infine furono poste sotto il controllo statale. Ancora più caotica era la situazione finanziaria. Le banche furono nazionalizzate e i debiti con l'estero cancellati. Ma tutto questo serviva a poco, visto che il governo non era in grado di riscuotere tasse ed era costretto, per le esigenze più urgenti, a stampare carta moneta priva di qualsiasi valore. Si finì così col tornare al sistema del baratto e le stesse retribuzioni vennero pagate in natura.
A partire dall'estate del '18 il governo bolscevico, che fin allora si era mosso senza un preciso piano di intervento, cercò di attuare anche in campo economico una politica più energica e autoritaria, che fu poi definita col termine comunismo di guerra, con evidente riferimento al "socialismo di guerra" sperimentato in Germania. Si cercò innanzitutto di risolvere il problema più urgente, quello degli approvvigionamenti alle città, dove la fame si faceva sentire in modo sempre più drammatico. Per questo furono istituiti in tutti i centri rurali dei comitati col compito di provvedere all'ammasso e alla distribuzione delle derrate. Fu incoraggiata, senza molto successo, la formazione di comuni agricole volontarie, le cosiddette "fattorie collettive" (kolchoz), e furono anche istituite delle "fattorie sovietiche" (sovchoz) gestite direttamente dallo Stato o dai soviet locali.
In campo industriale il comunismo di guerra fu inaugurato da un decreto del giugno 1918 che nazionalizzava tutti i settori più importanti. Si trattava di una misura di emergenza, che aveva lo scopo principale di normalizzare la produzione e di centralizzare le decisioni più importanti, ponendo fine allo spontaneismo che aveva caratterizzato le prime fasi della rivoluzione. Si cercò quindi di utilizzare i vecchi quadri dirigenti delle imprese, spesso affiancandoli con funzionari di partito, e di reintrodurre nelle fabbriche criteri di efficienza (compreso il sistema del "cottimo", ossia del salario legato al rendimento) in netto contrasto con i princìpi di egualitarismo salariale.
Grazie al comunismo di guerra il regime bolscevico riuscì ad assicurare lo svolgimento di alcune funzioni essenziali alla vita organizzata e soprattutto ad armare e nutrire il suo esercito. Ma sul piano economico l'esperienza si risolse in un totale fallimento. Alla fine del 1920 il volume della produzione industriale era di ben sette volte inferiore a quello del 1913. Le grandi città si erano letteralmente spopolate per la disoccupazione e per la fame. Nelle campagne i raccolti dei cereali risultavano più che dimezzati rispetto all'anteguerra. I tentativi di attuare un rigido razionamento dei generi alimentari e di controllare gli scambi fra città e campagna si scontravano con la scarsezza delle merci e con la sorda ostilità dei contadini. Il commercio privato, formalmente vietato, fioriva nell'illegalità con gli inevitabili fenomeni di "borsa nera". Per far fronte alle necessità più immediate le autorità civili e militari ricorrevano spesso a requisizioni indiscriminate: e ciò non faceva che accrescere il malcontento diffuso nelle campagne. Allontanatosi l'incubo del ritorno al vecchio regime, i contadini manifestarono sempre più chiaramente la loro insofferenza dando vita, nell'inverno 1920-21, a vere e proprie sommosse. La crisi raggiunse il culmine nella primavera-estate del '21, quando, per l'effetto congiunto della guerra civile e di un anno di siccità, una terribile carestia colpì le campagne della Russia e dell'Ucraina, provocando la morte di almeno tre milioni di persone. Questa catastrofe, nonostante gli sforzi compiuti dalle autorità per nasconderne al mondo le reali dimensioni, rappresentò un duro colpo per l'immagine del regime sovietico.
Non meno imbarazzante per il potere comunista era il dissenso che cominciava a serpeggiare fra gli operai, stanchi delle privazioni materiali, ma anche delusi dalla gestione autoritaria dell'economia, dalla scomparsa di una genuina rappresentanza sindacale (i sindacati, privati di ogni funzione rivendicativa, furono considerati come "organi della società socialista" e investiti del compito di assicurare la produttività del lavoro) e dal regime di militarizzazione imposto in molte fabbriche. Il punto di maggior tensione fu toccato ai primi di marzo del 1921, quando a ribellarsi al governo furono i marinai della base di Kronstadt, presso Pietroburgo, che era stata una roccaforte dei bolscevichi e aveva svolto un ruolo importante nella rivoluzione d'ottobre. Alle richieste dei ribelli, che invocavano elezioni libere nei soviet e, in genere, maggiori libertà politiche e sindacali, il governo rispose con una dura repressione militare.
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