11.3 Lo Stato accentrato, il Mezzogiorno, il brigantaggio
La preoccupazione quasi ossessiva dell'unità da salvaguardare contro nemici veri o presunti condizionò pesantemente le scelte dei primi governi postunitari e determinò in larga parte la stessa fisionomia del nuovo Stato. I leader della Destra, ammiratori dell'esempio britannico, erano disposti a riconoscere in teoria la validità di un sistema decentrato, basato sull'autogoverno (self-government) delle comunità locali. Nei fatti, però, prevalsero le esigenze pratiche immediate, che spingevano i governanti a stabilire un controllo il più possibile stretto e capillare su tutto il paese e dunque a orientarsi verso un modello di Stato accentrato molto vicino a quello napoleonico: basato cioè su ordinamenti uniformi per tutto il Regno e su una rigida gerarchia di funzionari dipendenti dal centro.
Del resto, le premesse dell'accentramento statale erano implicite nel modo stesso in cui si era giunti all'unificazione del paese, mediante successive annessioni al Regno di Sardegna. Decisiva a questo proposito era stata, fra il giugno '59 e il gennaio '60, l'opera svolta dal ministero La Marmora che, valendosi dei poteri straordinari conferitigli dallo stato di guerra con l'Austria, aveva varato senza alcun controllo parlamentare numerose leggi riguardanti i settori-chiave della vita del paese. Talora si trattava di un'estensione, con piccole modifiche, delle leggi piemontesi alle province appena annesse (così fu, ad esempio, per la legge elettorale). In altri casi furono emanate leggi nuove: come la legge Casati sull'istruzione, che creava un sistema scolastico nazionale e stabiliva il principio dell'istruzione elementare obbligatoria (demandandone però l'attuazione ai comuni); o come la legge Rattazzi sull'ordinamento comunale e provinciale, che affidava il governo dei comuni a un consiglio eletto a suffragio ristretto e a un sindaco di nomina regia e faceva delle province le circoscrizioni amministrative più importanti, ponendole sotto lo stretto controllo dei prefetti, rappresentanti del potere esecutivo. Anche questa legge fu successivamente estesa, con poche modifiche, a tutto il Regno: donde il carattere accentrato assunto dall'organizzazione statale, destinato a mantenersi per oltre un secolo.
Fra i motivi che spinsero la classe dirigente a scegliere questa soluzione e ad accantonare ogni progetto di decentramento amministrativo, il principale fu costituito certamente dalla situazione che si era venuta a creare nel Mezzogiorno. Nelle province meridionali liberate dal regime borbonico, il malessere antico delle masse contadine si sommò a una diffusa ostilità verso il nuovo ordine politico, che non aveva portato nessun mutamento radicale nella sfera dei rapporti sociali, anzi aveva visto la borghesia rurale fare rapidamente causa comune con i "conquistatori". Già nell'ultima fase dell'impresa garibaldina erano scoppiate, soprattutto in Campania, rivolte contadine di una certa gravità. Man mano che la realtà del nuovo Stato si venne manifestando con i suoi tratti più spiacevoli agli occhi delle popolazioni meridionali (la pesante fiscalità, il servizio di leva obbligatorio), i disordini si fecero più estesi e più frequenti, fino a trasformarsi in un generale moto di rivolta, incoraggiato da una parte del clero e sovvenzionato dalla corte borbonica in esilio a Roma.
Fin dall'estate del '61, tutte le regioni del Mezzogiorno continentale erano percorse da bande di irregolari, dove i briganti veri e propri si mescolavano ai contadini insorti, agli ex militari borbonici, ai cospiratori legittimisti italiani e stranieri. Le bande assalivano di preferenza i piccoli centri e li occupavano per giorni, massacrando i notabili liberali e incendiando gli archivi comunali; quindi si ritiravano sulle montagne per attaccare subito dopo altrove. Si trattò, insomma, di una vera e propria guerriglia, che traeva forza dal diffuso malessere sociale e si alimentava anche di un'elementare forma di lealismo nei confronti della dinastia borbonica.
A questo attacco, che pareva mettere in forse le basi stesse dell'unità nazionale, i governi postunitari reagirono con spietata energia, rafforzando in primo luogo i contingenti militari già presenti nel Sud. Nel 1863 le forze impiegate nella lotta al brigantaggio giunsero a contare 120.000 uomini, circa la metà dell'intero esercito italiano. Sempre nel '63, il Parlamento approvò una legge che istituiva, nelle province dichiarate "in stato di brigantaggio", un vero e proprio regime di guerra: tribunali militari per giudicare i ribelli e fucilazione immediata per chi avesse opposto resistenza con le armi. Sia per l'efficacia delle misure repressive, sia per la stanchezza della popolazione, il "grande brigantaggio" fu sconfitto nel giro di pochi anni. Già nel 1865 le bande più importanti erano state isolate e distrutte.
Rimasero però irrisolti i nodi politici e sociali che avevano reso possibile la diffusione del fenomeno. Mancò ai governi della Destra la capacità o la volontà di attuare una politica per il Mezzogiorno capace di ridurre le cause del malcontento: cause legate in gran parte alla mancata realizzazione delle secolari aspirazioni contadine alla proprietà della terra. La divisione dei terreni demaniali (ossia delle terre pubbliche di origine feudale o comunale), che era stata avviata in periodo napoleonico ed era proseguita con molta lentezza sotto i Borbone, fu portata avanti con scarsa incisività, senza che fosse affrontato il problema delle usurpazioni compiute dai grandi proprietari, né quello dell'abolizione degli usi civici, i tradizionali diritti (di pascolo, di raccolta del legname, ecc.) di cui i contadini godevano sulle terre comuni. Non ottenne risultati migliori la vendita dei terreni dell'asse ecclesiastico, ossia del patrimonio fondiario già appartenente a ordini e congregazioni religiose, incamerato dallo Stato con una legge del 1866. Attuata in tempi molto rapidi, sotto l'urgenza dei problemi finanziari, e col sistema delle vendite all'asta, questa operazione - che riguardava oltre 700.000 ettari di terre coltivabili - non servì a migliorare la situazione dei piccoli proprietari e dei contadini senza terra, che non erano in grado di concorrere all'acquisto dei fondi, e si risolse in un rafforzamento della grande proprietà. Più in generale, le principali scelte di politica economica messe in atto dai governi della Destra si rivelarono tutt'altro che vantaggiose per l'economia del Mezzogiorno. Ne risultò accentuato il divario fra le regioni del Sud e quelle del Centro-nord. Molto prima di diventare oggetto di polemiche e di studi, la questione meridionale era già una dolorosa realtà.
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