16. L'Italia nell'età della Sinistra
16.1 La Sinistra al potere
Con la cosiddetta rivoluzione parlamentare del marzo 1876, si apriva una nuova fase nella storia politica dell'Italia unita. Giungeva al potere un ceto dirigente quasi del tutto nuovo a esperienze di governo, diverso per formazione e per estrazione sociale da quello che aveva retto il paese nel primo quindicennio di vita unitaria. Si allontanava l'età delle lotte risorgimentali mentre scomparivano, nel giro di un decennio, gli ultimi protagonisti di quella stagione: Mazzini, spentosi in solitudine e in semiclandestinità a Pisa nel 1872, Vittorio Emanuele II (cui successe il figlio
Umberto I) e Pio IX, scomparsi nel 1878 a poche settimane di distanza l'uno dall'altro, Garibaldi, morto a Caprera nel 1882.
Nel momento in cui arrivò al potere, la Sinistra parlamentare aveva fortemente attenuato la sua originaria connotazione radical-democratica e si era allargata fino ad accogliere nel suo seno componenti moderate o addirittura conservatrici. Ciononostante, la nuova classe dirigente riuscì a esprimere in qualche modo il desiderio di democratizzazione della vita politica diffuso in larga parte della società; tentò, pur con molte incertezze e cautele, di allargare le basi dello Stato; seppe venire incontro alle esigenze di una borghesia in crescita meglio di quanto non fossero stati in grado di fare gli uomini della Destra, troppo chiusi in un atteggiamento di aristocratico distacco rispetto ai fermenti del "paese reale". Il protagonista indiscusso di questa fase politica, il piemontese
Agostino Depretis, già leader della Sinistra all'opposizione, fu capo del governo, salvo brevi interruzioni, per oltre dieci anni. Mazziniano in gioventù, approdato poi a posizioni più moderate, parlamentare espertissimo maturato nelle lotte politiche della Camera piemontese, Depretis riuscì a contemperare con molta abilità le spinte progressiste e le tendenze conservatrici che coesistevano all'interno della nuova maggioranza.
Il programma della Sinistra era basato su pochi punti fondamentali: allargamento del suffragio elettorale; riforma dell'istruzione elementare che ne assicurasse l'effettiva obbligatorietà e gratuità; decentramento amministrativo; sgravi fiscali soprattutto nel settore delle imposte indirette. Alcuni punti di questo programma vennero completamente accantonati (fu il caso, ad esempio, del decentramento amministrativo). Altri ebbero attuazione parziale o tardiva.
La prima riforma attuata fu quella dell'istruzione elementare. Una legge del 1877 - nota come legge Coppino dal nome del ministro che la presentò - ribadiva l'obbligo della frequenza scolastica già stabilito dalla legge Casati, portandolo fino a nove anni e aggiungendovi alcune sanzioni per i genitori inadempienti. Restavano tuttavia irrisolti i nodi di fondo che impedivano una reale attuazione dell'obbligo scolastico e che erano legati alle condizioni di povertà in cui versava la maggioranza delle famiglie italiane e alla insufficiente capacità dei comuni - soprattutto meridionali - di provvedere ai compiti loro spettanti. Fino alla fine del secolo, la percentuale degli analfabeti si mantenne molto elevata, pur diminuendo costantemente (si passò dal 70% del 1871 al 63% dell'81, per scendere di poco al di sotto del 50% solo all'inizio del '900).
Legato al problema dell'istruzione era quello dell'ampliamento del suffragio, che costituiva il punto centrale di tutto il programma della Sinistra. Scartata l'idea del suffragio universale, il criterio verso cui ci si orientò fu quello di introdurre come requisito fondamentale l'istruzione. Ciò avrebbe consentito un incremento graduale dell'elettorato, contestualmente alla realizzazione dell'obbligo scolastico; ma avrebbe anche tenuto lontano dalle urne, almeno per il momento, il grosso del proletariato urbano (influenzato dai partiti "sovversivi") e soprattutto le masse rurali, considerate pericolose in quanto presumibilmente soggette all'influenza clericale. La nuova legge elettorale, approvata dalla Camera all'inizio del 1882, concedeva il diritto di voto a tutti i cittadini che avessero compiuto il ventunesimo anno di età (la legge precedente fissava l'età minima a venticinque anni) e avessero superato l'esame finale del corso elementare obbligatorio, o dimostrassero comunque di saper leggere e scrivere. Il requisito del censo era mantenuto, in alternativa a quello dell'istruzione, e contemporaneamente abbassato di circa la metà (da quaranta a venti lire annuali di imposte pagate). A causa dell'alto tasso di analfabetismo, la consistenza numerica dell'elettorato restava sempre piuttosto esigua: poco più di due milioni, pari al 7% della popolazione e a circa un quarto dei maschi maggiorenni. Il corpo elettorale risultava tuttavia più che triplicato rispetto alle ultime consultazioni a suffragio ristretto e, quel che più conta, profondamente modificato nella composizione. Grazie alla nuova legge accedeva alle urne non solo la piccola borghesia urbana, ma anche una frangia non trascurabile di artigiani e operai del Nord. Le prime elezioni a suffragio allargato (ottobre 1882) videro infatti l'ingresso alla Camera del primo deputato socialista, il romagnolo Andrea Costa.
Torna all'indice