7.8 Lotte democratiche e restaurazione conservatrice
Dopo la sconfitta del Piemonte, a combattere contro l'Impero asburgico restavano solo i democratici italiani e ungheresi. Mentre in Ungheria lo scontro col potere imperiale assunse il carattere di una vera e propria guerra nazionale, in Italia i patrioti democratici dovettero combattere una serie di battaglie locali (a Roma e a Venezia, in Toscana e in Sicilia) senza riuscire a coordinare i diversi fronti e senza poter dare alla loro lotta una dimensione autenticamente popolare. Il loro ideale di una guerra di popolo che unisse la prospettiva della liberazione nazionale a quella dell'emancipazione politica e del rinnovamento sociale contrastava con la ristrettezza della base su cui effettivamente potevano contare: la piccola e media borghesia urbana (soprattutto quella intellettuale), il "popolo minuto" e i ceti artigiani delle città. Le masse contadine, ossia la stragrande maggioranza della popolazione italiana, rimasero invece estranee, quando non apertamente ostili, alle loro battaglie.
Tuttavia, nell'autunno del '48, la situazione in Italia era ancora abbastanza fluida. La Sicilia restava sotto il controllo dei separatisti, che si erano dati un proprio governo e una propria costituzione democratica. A Venezia, rimasta in mano degli insorti anche dopo la sconfitta di Custoza, Manin aveva nuovamente proclamato la repubblica. In Toscana, alla fine di ottobre, il granduca fu costretto dalla pressione popolare a formare un ministero democratico, capeggiato da Giuseppe Montanelli e da Francesco Domenico Guerrazzi, leader dei repubblicani livornesi. A Roma, in novembre, l'uccisione in un attentato del primo ministro pontificio, il liberal-moderato Pellegrino Rossi, aveva indotto il papa ad abbandonare la città e a rifugiarsi a Gaeta sotto la protezione di Ferdinando di Borbone. Nella capitale, rimasta senza governo, presero il sopravvento i gruppi democratici.
Nel gennaio del 1849, in tutti i territori dell'ex Stato pontificio, si tennero le elezioni a suffragio universale per l'Assemblea costituente. Fra gli eletti, in maggioranza democratici, c'erano anche Mazzini e Garibaldi. Il 9 febbraio l'Assemblea proclamò la decadenza del potere temporale dei papi e annunciò che lo Stato avrebbe assunto "il nome glorioso di Repubblica romana", avrebbe adottato come forma di governo "la democrazia pura" e avrebbe stabilito col resto d'Italia "le relazioni che esige la nazionalità comune". Era il primo passo verso la realizzazione di quella "Costituente italiana" che avrebbe dovuto - secondo una proposta formulata da Mazzini e ripresa da Montanelli - fondare la costruzione dell'unità nazionale su basi democratiche e non dinastiche.
Gli sviluppi della situazione nello Stato pontificio ebbero immediate ripercussioni in Toscana. Ai primi di febbraio, Leopoldo II abbandonò il paese, mentre veniva convocata un'Assemblea costituente e i poteri effettivi passavano a un triumvirato composto da Montanelli, Guerrazzi e Mazzoni. Intanto i democratici ripresero l'iniziativa anche in Piemonte. Alla fine di febbraio, il ministero che era stato formato in dicembre da Vincenzo Gioberti e che aveva tentato senza fortuna di riproporre un progetto di lega fra i sovrani italiani, fu sostituito da un nuovo governo dominato dai democratici e favorevole alla ripresa della guerra contro l'Austria.
Il 20 marzo 1849 Carlo Alberto, schiacciato fra le pressioni dei democratici e l'intransigenza degli austriaci, che ponevano condizioni molto pesanti per la firma della pace, si decise a tentare di nuovo la via delle armi. Questa volta però aveva di fronte non un esercito in ritirata, ma una armata già pronta ad attaccare. Penetrate in territorio piemontese, le truppe di Radetzky affrontarono l'esercito sabaudo il 22-23 marzo nei pressi di
Novara e gli inflissero una gravissima sconfitta. La stessa sera del 23 marzo, Carlo Alberto, per non mettere in pericolo le sorti della dinastia, abdicò in favore del figlio
Vittorio Emanuele II. Questi, il giorno dopo, firmò un nuovo armistizio con gli austriaci. Una rivolta democratica scoppiata a Genova fu duramente repressa dall'esercito.
Liquidata la partita col Regno sabaudo, gli austriaci potevano ora procedere alla restaurazione dell'ordine in tutta la penisola. Alla fine di marzo, un'insurrezione a Brescia fu schiacciata dopo durissimi combattimenti (le "dieci giornate" di Brescia). In aprile, le truppe imperiali strinsero d'assedio Venezia, che avrebbe resistito eroicamente per quasi cinque mesi e si sarebbe arresa per fame solo alla fine di agosto. In maggio, mentre Ferdinando di Borbone riusciva finalmente a riconquistare la Sicilia, gli austriaci occuparono il territorio delle Legazioni pontificie (Bologna, Ferrara, la Romagna e le Marche settentrionali) e contemporaneamente posero fine all'esperienza della Repubblica toscana.
Più lunga e gloriosa fu la resistenza della Repubblica romana, divenuta il centro principale della rivoluzione democratica e il luogo di incontro di esuli e cospiratori di tutta Italia: da Mazzini e Garibaldi al romagnolo Aurelio Saffi, al genovese Mameli, al napoletano Pisacane, ai milanesi Cernuschi e Manara, eroi delle "cinque giornate". Fin dai suoi primi atti, il governo repubblicano si qualificò per l'energia con cui cercò di portare avanti l'opera di laicizzazione dello Stato e di rinnovamento politico e sociale. Furono aboliti i tribunali ecclesiastici e fu decretata la confisca dei beni del clero. Fu varato - caso unico nella storia delle rivoluzioni italiane dell'800 - un progetto di riforma agraria che prevedeva la concessione di parte dei fondi confiscati in affitto perpetuo alle famiglie più povere.
Frattanto però, dal suo esilio di Gaeta, Pio IX si era rivolto alle potenze cattoliche per essere ristabilito nei suoi territori. Avevano risposto all'appello, non solo l'Austria, la Spagna e il Regno di Napoli, ma anche la Repubblica francese, ormai dominata dalle forze clerico-conservatrici. Il presidente Bonaparte - sia per assicurarsi l'appoggio dei cattolici sia per prevenire un intervento austriaco - si riservò il ruolo principale nella restaurazione pontificia, inviando nel Lazio un corpo di spedizione forte di 35.000 uomini. All'inizio di giugno i reparti francesi attaccarono la capitale. I repubblicani - che avevano affidato i pieni poteri a un triumvirato composto da Mazzini, da Saffi e dal romano Carlo Armellini - organizzarono una difesa accorta ed efficace e riuscirono a tenere in scacco gli assedianti per più di un mese. Si rivelarono nella difesa di Roma le capacità politiche di Mazzini, alla sua prima e ultima esperienza di uomo di governo; e si misero in luce le qualità militari di Garibaldi, protagonista fra i principali della resistenza. La difesa della Repubblica romana ebbe un valore altissimo di testimonianza e di riferimento ideale, ma non aveva alcuna possibilità di successo sul terreno militare. Il 4 luglio, dopo che l'Assemblea costituente ebbe approvato il testo della nuova costituzione, fu dato l'ordine della resa. Mentre i francesi entravano a Roma, Garibaldi lasciava la città con qualche centinaio di volontari, nel vano tentativo di raggiungere Venezia.
Dopo la fine della Repubblica romana, l'unico focolaio di rivolta in Europa - a parte l'estrema resistenza di Venezia - restava l'Ungheria di Kossuth, dove i patrioti magiari, profittando anche dell'impegno austriaco in Italia, avevano riacquistato il controllo del paese e ne avevano proclamato l'indipendenza. Per venire a capo della ribellione, il governo austriaco chiese l'aiuto dello zar di Russia, preoccupato dalla persistenza di un focolaio rivoluzionario ai confini del suo impero. Attaccato contemporaneamente da due eserciti, il neonato Stato magiaro fu costretto a soccombere (battaglia di Vilagos dell'11 agosto 1849), dopo una campagna durata più di due mesi. Due settimane dopo (26 agosto) capitolava Venezia. Si concludeva così l'ultima fase della stagione rivoluzionaria cominciata all'inizio del '48.
La causa principale di questo generale fallimento va individuata nelle profonde fratture che attraversavano al loro interno le forze del cambiamento e della rivoluzione, dividendo sempre più le correnti democratico-radicali dai gruppi liberal-moderati. Questi ultimi, spaventati dalla minaccia della rivoluzione sociale (identificata con lo "spettro del comunismo"), si riaccostarono più o meno rapidamente alle vecchie classi dirigenti. Lasciati soli a sostenere lo scontro politico e militare con l'antico regime, e privi di un'autentica base di massa, i democratici erano inevitabilmente destinati a soccombere. La sconfitta dell'ipotesi rivoluzionaria non cancellava però quanto di nuovo era emerso dalla esperienza del '48: la spinta verso una più ampia partecipazione al potere politico e l'affermazione degli ideali di nazionalità costituivano ormai un dato incancellabile del panorama europeo, un problema cui si potevano dare risposte diverse, ma da cui non si poteva prescindere del tutto.
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