27. L'Italia fascista
27.1 Il totalitarismo imperfetto
Nella seconda metà degli anni '20, quando in Germania il nazismo era ancora una forza marginale, in Italia lo Stato totalitario era già una realtà consolidata nelle sue strutture giuridiche (il partito unico, la milizia, i sindacati di regime, ecc.) e ben riconoscibile nelle sue manifestazioni esteriori: le adunate di cittadini in uniforme, le campagne propagandistiche orchestrate dall'autorità, l'amplificazione dell'immagine e della parola del capo, oggetto di un vero e proprio culto.
Caratteristica essenziale del regime era la sovrapposizione di due strutture e di due gerarchie parallele: quella dello Stato, che aveva conservato l'impalcatura esterna del vecchio Stato monarchico, e quella del partito con le sue numerose ramificazioni. Il punto di congiunzione fra le due strutture era rappresentato dal Gran consiglio del fascismo, organo di partito investito anche di importantissime funzioni costituzionali. Al di sopra di tutti si esercitava incontrastato il potere di Mussolini, che riuniva in sé la qualifica di capo del governo e quella di duce del fascismo. Contrariamente a quanto sarebbe accaduto in altri regimi totalitari, nel fascismo italiano l'apparato dello Stato ebbe fin dall'inizio, per esplicita scelta di Mussolini, una netta preponderanza sulla macchina del partito. Per trasmettere la sua volontà dal centro alla periferia, Mussolini si servì del tradizionale strumento dei prefetti assai più che degli organi locali del Pnf. A controllare l'ordine pubblico e a reprimere il dissenso provvedeva la polizia di Stato, mentre la Milizia era confinata a una funzione poco più che decorativa di corpo "ausiliario", senza nessun paragone con quello che sarebbe stato il ruolo svolto in Germania prima dalle SA e poi dalle SS.
Privato di ogni autonomia politica, il Partito fascista venne però continuamente dilatando le sue dimensioni e la sua presenza nella società civile. Dalla fine degli anni '20 l'iscrizione al partito cessò di essere il segno dell'appartenenza a un'élite e divenne una pratica di massa (nel '39 gli iscritti superavano i due milioni e mezzo), quasi una formalità burocratica, necessaria fra l'altro per ottenere un posto nell'amministrazione statale. Una funzione importante nella fascistizzazione del paese fu svolta da alcune organizzazioni "collaterali" al partito: come l'Opera nazionale dopolavoro, fondata nel '25, che si occupava del tempo libero di milioni di lavoratori organizzando gare sportive, gite domenicali e altre attività ricreative prima gestite liberamente dalle organizzazioni di classe o dalla Chiesa; o come il Comitato olimpico nazionale (Coni), nato nel '27 allo scopo di incoraggiare, ma anche di controllare, le attività sportive fin allora affidate all'iniziativa di organismi privati. Più importanti di tutte erano le organizzazioni giovanili del partito: i Fasci giovanili, i Gruppi universitari fascisti (Guf) e soprattutto l'Opera nazionale Balilla (Onb). L'Onb, nata nel '26, inquadrava tutti i giovani fra i dodici e i diciotto anni (divisi, secondo l'età, in "balilla" e "avanguardisti") e forniva loro, oltre a un supplemento di educazione fisica e a qualche rudimento di istruzione "premilitare", anche un minimo di indottrinamento ideologico. Anche per i bambini sotto i dodici anni fu creata un'organizzazione, detta dei Figli della lupa.
Il tentativo messo in atto dal fascismo attraverso queste e altre organizzazioni di massa (dai sindacati alla Milizia) era quello di "occupare", insieme allo Stato, anche la società, di riplasmarla dalle fondamenta facendo leva soprattutto sui giovani. In questo senso il regime fascista fu certamente totalitario, almeno nelle intenzioni. Ma alle intenzioni non sempre corrisposero i risultati, visti i notevoli ostacoli che il fascismo doveva superare nel suo tentativo di permeare di sé la società. L'ostacolo maggiore era senza dubbio rappresentato dalla Chiesa. In un paese in cui oltre il 99% della popolazione si dichiarava di fede cattolica, in cui la pratica religiosa era diffusa in modo massiccio, in cui le parrocchie rappresentavano spesso l'unico centro di aggregazione sociale e culturale, non era facile governare contro la Chiesa o senza trovare con essa un qualche modus vivendi.
Consapevole di ciò, Mussolini non solo aveva cercato un'intesa politica col Vaticano - e l'aveva trovata, come si è visto, ai danni del Partito popolare - ma aveva mirato più lontano, profittando della disponibilità manifestata dalle gerarchie ecclesiastiche nei confronti del regime per avviare a definitiva composizione lo storico contrasto fra Stato e Chiesa che aveva segnato l'intera vita del Regno d'Italia. Le trattative fra governo e Santa Sede cominciarono nell'estate del '26, si protrassero per due anni e mezzo nel più assoluto segreto e si conclusero l'11 febbraio 1929 con la stipula dei patti che presero il nome dai palazzi del Laterano, cioè dal luogo in cui Mussolini e il segretario di Stato vaticano cardinal Gasparri si incontrarono per la firma.
I
Patti lateranensi si articolavano in tre parti distinte: un trattato internazionale, con cui la Santa Sede poneva ufficialmente fine alla "questione romana" riconoscendo lo Stato italiano e la sua capitale e vedendosi riconosciuta la sovranità sullo "Stato della Città del Vaticano" (uno Stato poco più che simbolico, comprendente la basilica di San Pietro e i palazzi circostanti); una convenzione finanziaria, con cui l'Italia si impegnava a pagare al papa una forte indennità a titolo di risarcimento per la perdita dello Stato pontificio; infine un concordato, che regolava i rapporti interni fra la Chiesa e il Regno d'Italia, intaccando sensibilmente il carattere laico dello Stato. Il concordato stabiliva fra l'altro che i sacerdoti fossero esonerati dal servizio militare, che i preti spretati fossero esclusi dagli uffici pubblici, che il matrimonio religioso avesse effetti civili, che l'insegnamento della dottrina cattolica fosse considerato "fondamento e coronamento" dell'istruzione pubblica, che le organizzazioni dipendenti dall'Azione cattolica potessero continuare a svolgere la propria attività, purché sotto il controllo delle gerarchie ecclesiastiche e al di fuori di ogni partito politico.
Per il regime fascista i Patti lateranensi rappresentarono un notevole successo propagandistico. Presentandosi come l'artefice della "conciliazione", come l'uomo che era riuscito laddove erano falliti tutti i governi liberali, Mussolini consolidò la sua area di consenso e la estese anche a strati della popolazione rimasti fin allora ostili o indifferenti. Le prime elezioni plebiscitarie - tenute col sistema della lista Unica e indette, non a caso, nel marzo '29, a poche settimane dalla conciliazione - registrarono un afflusso alle urne senza precedenti (quasi il 90%) con un 98% di voti favorevoli. Un risultato da valutare con cautela (come tutti quelli dei plebisciti tenuti in regimi autoritari, dove l'elettore non ha una vera libertà di scelta e manca qualsiasi controllo sulla veridicità dei dati), ma comunque indicativo di un diffuso orientamento favorevole al regime.
Se il fascismo trasse dai Patti lateranensi immediati vantaggi politici, fu però il Vaticano a cogliere i successi più significativi e duraturi. In cambio della rinuncia a qualcosa che aveva irrevocabilmente perduto da quasi sessant'anni (il potere temporale), la Chiesa acquistò una posizione di indubbio privilegio nei rapporti con lo Stato - anche in materie importanti come l'istruzione e la legislazione matrimoniale - e rafforzò notevolmente la sua presenza nella società. Mantenendo intatta la rete di associazioni e circoli facente capo all'Azione cattolica, la gerarchia ecclesiastica si assicurava un largo margine di autonomia operativa ed entrava in concorrenza col fascismo proprio nel settore che stava più a cuore al regime: quello delle organizzazioni giovanili. Di questi spazi la Chiesa non si servì mai per fare opera di opposizione; li usò, però, per educare ai suoi valori una parte non trascurabile della gioventù, per formare una classe dirigente capace, all'occorrenza, di prendere il posto di quella fascista: cosa che di fatto si verificò nel secondo dopoguerra.
La Chiesa non costituì l'unico ostacolo per le aspirazioni totalitarie del fascismo. Un altro limite insuperabile stava all'interno, anzi al vertice delle istituzioni statali ed era rappresentato dalla monarchia. Diversamente da Hitler, che dopo il '34 poté riunire nella sua persona le figure di capo del partito, del governo e dello Stato, Mussolini dovette fare i conti con una autorità - quella appunto del re - che non gli era in alcun modo subordinata e che non derivava dal fascismo i suoi titoli di legittimità. Per quanto fosse regolarmente esautorato, fino ad apparire come un ostaggio nelle mani di Mussolini, il re restava pur sempre la più alta autorità dello Stato. A lui spettavano il comando supremo delle forze armate, la scelta dei senatori e addirittura il diritto di nomina e revoca del capo del governo. Si trattava di poteri del tutto teorici, destinati a restare tali finché il regime fosse rimasto forte e compatto attorno al suo capo. Ma, in caso di crisi o di spaccatura interna, le carte migliori sarebbero fatalmente tornate in mano al re, punto di riferimento insostituibile per i militari e la borghesia conservatrice. Il che rappresentava per il fascismo un motivo di sotterranea debolezza.
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