18.4 Imperialismo e riforme in Gran Bretagna
Negli anni a cavallo fra i due secoli - gli anni dell'esaltazione imperialistica, della guerra contro i boeri e della fine dell'età vittoriana (la regina morì nel 1901, lasciando il trono al figlio, l'ormai sessantenne Edoardo VII) - la Gran Bretagna fu governata dalla coalizione fra i conservatori e i liberali "unionisti", con Joseph Chamberlain che occupò quasi ininterrottamente la carica di ministro per le Colonie. Come aveva fatto Disraeli, anche i governi conservatori-unionisti cercarono di contemperare l'imperialismo con una certa dose di riformismo sociale: non tale, tuttavia, da intaccare seriamente i privilegi delle classi agiate. Fra il 1897 e il 1905 furono varate leggi che stabilivano la responsabilità degli imprenditori in materia di infortuni sul lavoro, aumentavano i finanziamenti per le scuole elementari e medie e prevedevano alcune misure atte a favorire il collocamento dei lavoratori disoccupati.
A mettere in crisi l'egemonia conservatrice fu il progetto, sostenuto soprattutto da Chamberlain sotto la pressione di una parte degli industriali, di introdurre anche in Gran Bretagna il protezionismo doganale, sotto forma di una tariffa imperiale (comune cioè a tutti i paesi facenti parte dell'Impero britannico), sconvolgendo così una tradizione libero-scambista che durava ormai da più di mezzo secolo. Nelle elezioni del 1906, i liberali - che si erano opposti al progetto - conquistarono un'ampia maggioranza, mentre per la prima volta faceva il suo ingresso alla Camera un gruppo di trenta deputati laburisti.
I governi liberali si qualificarono per una linea meno aggressiva in campo coloniale e per una più energica e organica politica di riforme sociali: riduzione dell'orario a otto ore per i minatori, istituzione di uffici di collocamento, assicurazioni per la vecchiaia a totale carico dello Stato. Ma l'aspetto più nuovo e coraggioso della loro azione fu il tentativo di sopperire alle spese per le riforme (che si sommavano a quelle sempre più alte richieste dalla corsa agli armamenti navali) con una politica fiscale fortemente progressiva, mirante a colpire soprattutto i grandi patrimoni. Il tentativo si scontrò con la reazione della Camera dei Lords, roccaforte dell'aristocrazia, che, in base alla costituzione non scritta su cui si reggeva il sistema politico inglese, aveva il diritto di respingere le leggi votate dalla Camera dei Comuni. Il diritto di veto, però, non si applicava per tradizione alle leggi finanziarie, la cui mancata approvazione avrebbe provocato il blocco della macchina statale.
Quando, nel 1909, i Lords violarono questa prassi respingendo il bilancio preventivo presentato dal governo liberale (ed elaborato da David Lloyd George, astro nascente del partito, allora cancelliere dello Scacchiere, ossia ministro per l'Economia), ne nacque un conflitto costituzionale che vedeva contrapposte le due Camere, l'una a maggioranza liberale, l'altra dominata dai conservatori. I liberali presentarono allora un "progetto di legge parlamentare" (Parliamentary Bill), che negava ai Lords il diritto di respingere leggi di bilancio e lasciava loro, per tutte le altre leggi, solo la facoltà di rinviarle due volte alla Camera dei Comuni (dopodiché sarebbero state comunque approvate). Nel 1911, dopo un braccio di ferro durato due anni e dopo due successive elezioni anticipate vinte, sia pure di stretta misura, dai liberali, i Lords, grazie anche alle pressioni del nuovo re Giorgio V, si piegarono ad accettare la legge che limitava i loro privilegi e che rappresentava un'indiscutibile vittoria per le forze progressiste.
Questo successo politico non servì però a portare nel paese un clima di tranquillità. I progressi della legislazione sociale, non accompagnati da consistenti miglioramenti salariali, non avevano smorzato la combattività della classe lavoratrice, protagonista di una lunga serie di scioperi che spesso sfuggivano al controllo delle stesse Trade Unions. Alle agitazioni operaie si aggiungevano quelle delle "suffragette" (
17.7) e quelle, mai interrottesi, dei nazionalisti irlandesi, che disponevano alla Camera dei Comuni di un gruppo di ottanta deputati, il cui appoggio era indispensabile alla sopravvivenza dei governi liberali. Nel 1911, il governo Asquith presentò un nuovo progetto di Home Rule, che prevedeva un'Irlanda autonoma, con un proprio governo e un proprio parlamento, ma pur sempre legata alla corona britannica e dipendente dall'Inghilterra per tutte le questioni di comune interesse. La soluzione proposta scontentava sia i nazionalisti irlandesi, che miravano alla piena indipendenza, sia la minoranza protestante dell'Ulster (Irlanda del Nord), che organizzò un movimento clandestino armato per opporsi all'autonomia. Dopo un lungo e tormentato dibattito, il progetto liberale fu comunque approvato dalla Camera nel maggio 1914, ma la sua applicazione fu subito dopo sospesa a causa dello scoppio della guerra.
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