26.5 Repressione e consenso nel regime nazista
Fino a quando non fu definitivamente distrutta dalla sconfitta in guerra, la macchina del regime nazista poté funzionare senza incontrare ostacoli di rilievo e senza suscitare nel paese resistenze efficaci ed estese. L'opposizione comunista, quasi annientata dopo l'incendio del Reichstag, riuscì a mantenere in piedi solo pochi e isolati nuclei clandestini. La socialdemocrazia, per nulla preparata alla lotta illegale, fece sentire la propria voce solo attraverso gli esuli. I cattolici, dopo lo scioglimento del Centro, finirono con l'adattarsi al regime, incoraggiati anche dall'atteggiamento della Chiesa di Roma che, nel luglio del '33, stipulò un concordato col governo nazista, assicurandosi la libertà di culto e la non interferenza dello Stato negli affari interni del clero. Solo nel marzo 1937, di fronte agli eccessi della politica razziale nazista, il papa Pio XI intervenne con un'enciclica in lingua tedesca per condannare dottrine e pratiche che sempre più rivelavano il loro carattere "pagano". Ma non vi fu, né allora né in seguito, una denuncia del concordato o una scomunica ufficiale del nazismo.
Se pochi furono i problemi creati al regime dalla minoranza cattolica, deboli furono anche le resistenze offerte dalla maggioranza protestante. Le chiese luterane, per lo più orientate in senso conservatore e tradizionalmente ossequienti al potere, si piegarono alle imposizioni del regime, compreso il giuramento di fedeltà dei pastori al Führer. Solo una minoranza di ministri del culto si oppose attivamente alla nazificazione e fu perciò duramente perseguitata.
Paradossalmente, l'opposizione più pericolosa per Hitler sarebbe venuta, negli ultimi anni del regime, da esponenti di quei gruppi conservatori e militari che avevano avuto non piccole responsabilità nell'avvento del nazismo. In buona parte conservatori erano quegli ufficiali e quei politici che, nel luglio 1944, cercarono di attentare alla vita di Hitler, fallendo l'obiettivo per un soffio e finendo sterminati con tutte le loro famiglie.
Come spiegare la debolezza dell'opposizione al nazismo in un paese che aveva un fortissimo proletariato industriale e che, fin quando aveva potuto esprimersi liberamente, aveva dato una parte rilevante dei suoi consensi alla sinistra? È necessario mettere in conto, in primo luogo, la vastità e l'efficienza dell'apparato repressivo e terroristico: le molte polizie (da quella ufficiale a quella segreta, la Gestapo, all'onnipresente "servizio di sicurezza" delle SS) che controllavano con ogni mezzo la vita pubblica e privata dei cittadini; i campi di concentramento (lager) dove gli oppositori venivano rinchiusi a centinaia di migliaia e sottoposti, sotto la regia di speciali reparti delle SS, a un lento annientamento.
La repressione poliziesca e i lager possono spiegare la limitatezza del dissenso (almeno di quello esplicito), ma non ci aiutano a capire le dimensioni del consenso al regime, che furono forse superiori a quelle mai ottenute da qualsiasi altro sistema totalitario. Una prima spiegazione sta nei successi di Hitler in politica estera. Di questi successi avremo modo di parlare più avanti. Ma è il caso di sottolineare fin d'ora che, smontando pezzo dopo pezzo tutta la costruzione di Versailles e riportando la Germania al ruolo di protagonista della politica europea, Hitler stimolò l'orgoglio patriottico dei tedeschi (un sentimento che non era patrimonio della sola borghesia) e fece provare ai suoi concittadini la sensazione della rivincita.
Un altro importante fattore di consenso fu senza dubbio la ripresa economica. Superato, già nel '33, il momento più acuto della crisi, l'economia tedesca, liberata dal peso delle riparazioni, riprese progressivamente slancio. La produzione industriale tornò in pochi anni ai livelli del '28, per superarli nel '38-'39. Il piano di preparazione alla guerra approntato da Hitler subito dopo la presa del potere ebbe indubbiamente l'effetto di rendere più rapida la ripresa. Analogo effetto ebbe il programma di lavori pubblici che, fra l'altro, consentì alla Germania di dotarsi, prima in Europa, di una vasta rete di autostrade. Grazie al riarmo e ai lavori pubblici la disoccupazione diminuì rapidamente: fra il '33 e il '36 i disoccupati si ridussero da 6 milioni a 500.000. Nel '39, alla vigilia della guerra, era stata raggiunta la piena occupazione.
Usando la spesa pubblica per favorire la ripresa e accrescere l'occupazione, il regime nazista attuò una politica in fondo non molto diversa da quella messa in atto negli stessi anni da Roosevelt negli Stati Uniti: senza però il respiro sociale del New Deal. Abbandonando i programmi anticapitalistici del primo nazismo, il regime cercò di incoraggiare in ogni modo l'iniziativa privata e al tempo stesso di legarla al potere politico (attraverso le commesse statali), di vincolarla ad alcuni obiettivi di fondo, che si riassumevano nel porre il paese in condizione di affrontare una guerra. In questo quadro il potere nazista poté agire, almeno nei primi anni, in perfetto accordo con la grande industria e con la grande proprietà terriera. In campo agricolo, il regime si limitò a imporre una serie di norme che tutelavano la piccola e media proprietà terriera, senza intaccare i latifondi.
Nel settore delle relazioni industriali, la maggiore novità fu l'applicazione del Führerprinzip all'interno dei luoghi di lavoro, con l'imprenditore elevato al rango di capo assoluto dell'azienda. Sottoposti a disciplina semimilitare e privati delle loro autonome rappresentanze, i lavoratori dell'industria persero ogni capacità contrattuale e videro i loro salari crescere in misura mediamente inferiore al costo della vita. Anche gli operai, tuttavia, parteciparono in qualche misura al ritrovato benessere: fruirono di migliori servizi sociali (pensioni, assistenza medica, organizzazione del tempo libero) e soprattutto videro allontanarsi l'incubo della disoccupazione che tanto aveva pesato sulla condizione dei lavoratori negli anni della grande crisi.
I successi in economia e in politica estera non basterebbero però a spiegare l'ampiezza del consenso al regime se non si tenesse conto di un altro fattore essenziale: la capacità del nazismo di proporre e di imporre formule e miti capaci di toccare le corde profonde dell'anima popolare, la sua abilità nel servirsi a questo scopo di tutti gli strumenti disponibili nell'età delle comunicazioni di massa. L'utopia che il nazismo proponeva ai tedeschi attraverso la stampa, i discorsi del Führer, i film di propaganda, era un'utopia reazionaria e "ruralista": un mondo popolato da uomini belli e sani, profondamente legati alla loro terra; una società patriarcale di contadini-guerrieri, libera dagli orrori delle metropoli moderne e dalle malattie della civiltà industriale. Questo ideale - ovviamente irrealizzabile in una società industrializzata e altamente urbanizzata come quella tedesca - contrastava in modo stridente con la prassi concreta del regime, sospinto dalla sua logica bellicistica a favorire lo sviluppo della grande industria. Ma si innestava su una solida tradizione culturale nazionale, di origine soprattutto romantica, fondata sui miti della terra e del sangue; e rifletteva uno stato d'animo, largamente diffuso a livello popolare, di istintivo rifiuto della civiltà moderna e di rimpianto per un passato preindustriale dipinto in forme idilliache.
La caratteristica peculiare della politica culturale nazista stava nel fatto che per diffondere un'utopia antimoderna il regime si serviva di mezzi moderni e modernissimi. Quello nazista fu il primo governo a istituire in tempo di pace un ministero per la Propaganda che, affidato all'abilissimo
Joseph Goebbels, divenne uno dei principali centri di potere del regime. La stampa fu sottoposta a strettissimo controllo e inglobata in un unico apparato alle dipendenze del ministero. Gli intellettuali furono inquadrati in un'organizzazione nazionale (la Camera di cultura del Reich) e dovettero fare atto di adesione al regime: quelli che non vollero piegarsi furono costretti al silenzio o obbligati a lasciare il paese. Ma, soprattutto, furono largamente sfruttati i nuovi mezzi di comunicazione di massa e furono utilizzate in misura mai vista prima le tecniche dello spettacolo.
Tutti i momenti più significativi della vita del regime furono scanditi da feste e cerimonie pubbliche: sfilate militari, esibizioni sportive di gruppo e, soprattutto, adunate di massa culminanti nel discorso del Führer o di altri dirigenti. Queste cerimonie-spettacolo erano preparate con estrema cura: la scenografia doveva essere solenne e monumentale, il colpo d'occhio suggestivo, la coreografia impeccabile. L'importanza delle cerimonie pubbliche non si limitava a questi aspetti di parata. Nella grande adunata il cittadino trovava quei momenti di socializzazione, sia pure forzata, che la vita nelle grandi città non offriva spontaneamente; trovava quegli elementi "sacrali" che aveva perso col tramonto della vecchia società contadina (il cui ritmo era appunto scandito da feste e da riti). Era questo un fenomeno - ha scritto lo storico George L. Mosse - "che non può essere classificato con i tradizionali canoni della teoria politica. [... Era] una religione laica, la prosecuzione, dai tempi primordiali e cristiani, di un modo di considerare il mondo attraverso il mito e il simbolo, di manifestare le proprie speranze e timori in forme cerimoniali e liturgiche".
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