20.8 Riformisti e rivoluzionari
La svolta liberale dell'inizio del '900 aveva avuto nei socialisti non solo degli spettatori interessati, ma anche dei protagonisti attivi. Dopo aver combattuto i tentativi autoritari di fine secolo, i dirigenti e i deputati del Psi avevano incoraggiato la nuova politica annunciata da Giolitti e appoggiato in Parlamento i governi che davano garanzie di muoversi su quella linea. Il grande sviluppo delle organizzazioni operaie e contadine nei primi anni del secolo sembrò dar ragione a chi, come Turati e i dirigenti a lui più vicini (Treves, Bissolati, Prampolini), pensava che la via delle riforme e della collaborazione con la borghesia progressista, pur nel rispetto della propria autonomia di classe, fosse per il movimento operaio l'unica capace di assicurare il consolidamento dei risultati appena conseguiti.
Condivise, all'inizio, dalla grande maggioranza del partito, le tesi di Turati cominciarono a incontrare opposizioni crescenti, man mano che si venivano delineando i limiti del liberalismo giolittiano. Agli occhi dei socialisti rivoluzionari, i conflitti a volte sanguinosi fra lavoratori e forza pubblica che continuavano a verificarsi soprattutto nelle campagne del Mezzogiorno (dove le agitazioni avevano in genere carattere spontaneo e incontrollato) mostravano la vera natura dello Stato monarchico e borghese, contro cui si doveva continuare ad opporre una linea di rigida intransigenza classista. Su questa linea si schierarono alcuni leader storici del partito, come Enrico Ferri e Costantino Lazzari, e molti giovani che cominciavano a subire l'influenza del sindacalismo rivoluzionario francese e della teoria dello sciopero generale.
Nel congresso di Bologna dell'aprile 1904, le correnti rivoluzionarie coalizzate riuscirono a strappare ai riformisti la guida del partito. Pochi mesi dopo, in settembre, la protesta dei lavoratori per l'ennesimo "eccidio proletario" (quello verificatosi a Buggerru, in Sardegna, nel corso di una manifestazione di minatori) sfociava nel primo sciopero generale nazionale della storia d'Italia. Proclamato dapprima in alcuni centri del Nord ed estesosi quindi, con l'appoggio della direzione del Psi, a buona parte del territorio nazionale, lo sciopero non diede luogo, se non in rari casi, a manifestazioni violente. Ma rappresentò ugualmente un grave trauma per la borghesia italiana, agli occhi della quale l'idea stessa di sciopero generale si caricava di riferimenti minacciosi. Forti furono le pressioni sul governo perché intervenisse militarmente contro gli scioperanti. Ma Giolitti, fedele al suo metodo, lasciò che la manifestazione si esaurisse da sola, salvo poi a sfruttare le paure dell'opinione pubblica moderata per convocare, in novembre, nuove elezioni in cui le sinistre segnarono una battuta d'arresto. Per il movimento operaio, lo sciopero costituì un'indubbia prova di forza, ma anche una rivelazione di alcuni gravi limiti: la distribuzione territoriale squilibrata, la mancanza di coordinamento fra le organizzazioni locali, l'assenza di un organo sindacale centrale capace di guidare le agitazioni.
L'esigenza di un più stretto coordinamento nazionale era sentita soprattutto dai riformisti, che avevano aderito senza entusiasmo allo sciopero generale e che controllavano la maggior parte delle organizzazioni nazionali di categoria (mentre i rivoluzionari erano più forti nelle Camere del lavoro). Dalle federazioni di categoria partì l'iniziativa che portò, nel 1906, alla fondazione della Confederazione generale del lavoro (Cgl), che raccoglieva oltre duecentomila iscritti ed era saldamente controllata da riformisti come il segretario generale Rinaldo Rigola. Minoritari nel sindacato, i rivoluzionari persero posizioni anche nel partito. La corrente più estremista, quella sindacalista-rivoluzionaria, fu progressivamente emarginata e infine allontanata dal Psi nel 1907 (nel 1911 si sarebbe staccata anche dalla Cgl dando vita all'Usi, Unione sindacale italiana).
I riformisti riassunsero il controllo del partito, ma conobbero nel contempo le prime serie divisioni interne. In questi anni si andò infatti delineando una tendenza revisionista che faceva capo a Leonida Bissolati e a Ivanoe Bonomi e che, ispirandosi alle teorie di Bernstein e all'esperienza del laburismo inglese, prospettava la trasformazione del Psi in un "partito del lavoro" privo di connotazioni ideologiche troppo nette e disponibile per una collaborazione di governo con le forze democratico-liberali. In un primo tempo la dissidenza rimase circoscritta al piano teorico. Ma a far precipitare i contrasti fu l'atteggiamento non pregiudizialmente contrario assunto da Bissolati e Bonomi di fronte all'impresa libica.
Nel congresso di Reggio Emilia del luglio 1912, i rivoluzionari riuscirono a imporre l'espulsione dal Psi dei riformisti di destra, che diedero vita al Partito socialista riformista italiano. La nuova formazione, abbastanza forte a livello di rappresentanza parlamentare, non riuscì ad assicurarsi un consistente seguito di massa. Ma la scissione ebbe pesanti conseguenze sulle vicende del socialismo italiano. I riformisti rimasti nel Psi furono nuovamente ridotti in minoranza e la guida del partito tornò nelle mani degli intransigenti, fra i quali venne emergendo la figura di un giovane agitatore romagnolo che si era distinto nelle manifestazioni contro la guerra libica ed era stato fra i protagonisti del congresso di Reggio Emilia: Benito Mussolini. Chiamato alla direzione del quotidiano del partito, l'"Avanti!", Mussolini portò nella propaganda socialista uno stile nuovo, basato sull'appello diretto alle masse e sul ricorso a formule agitatorie prese a prestito dal sindacalismo rivoluzionario. Uno stile che si inseriva bene nel clima politico creatosi in Italia all'indomani della guerra libica.
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