16.3 I primi passi del movimento operaio
La crescita di un movimento operaio organizzato fu rallentata, in Italia, dal ritardo nello sviluppo industriale e dalla conseguente assenza di un proletariato di fabbrica moderno e numericamente consistente. Degli oltre tre milioni di persone - pari a un 20% della popolazione attiva - che il censimento del 1871 indicava come addetti all'industria, la maggioranza era costituita da lavoranti di botteghe artigiane. Anche nelle unità produttive di maggiori dimensioni (specie nel settore tessile, dove era molto numerosa la manodopera femminile e minorile) accadeva spesso che gli operai alternassero stagionalmente il lavoro in fabbrica con quello nei campi; e molto diffuso, sempre nel settore tessile, restava il lavoro a domicilio. Esistevano tuttavia, anche al di fuori del proletariato di fabbrica in senso stretto, categorie abbastanza numerose e dotate di un forte spirito di associazione: innanzitutto i ferrovieri e i tipografi, poi i lavoratori dell'abbigliamento, i panettieri, i gasisti, gli scaricatori dei porti. Senza contare gli edili, categoria instabile, formata per lo più da immigrati dalle campagne e ingrossata dalla rapida espansione dei centri urbani.
Fino all'inizio degli anni '70, l'unica organizzazione operaia di una certa consistenza diffusa in tutto il paese fu quella delle società di mutuo soccorso. Operanti già prima dell'unità, soprattutto in Piemonte e in Liguria, queste associazioni erano in parte controllate dai mazziniani e in parte organizzate da esponenti moderati (non di rado dagli stessi industriali) . Nel 1871, le società di ispirazione mazziniana, unite fra loro da un patto di fratellanza, erano più di mille, con circa 230.000 soci. Concepite come strumenti di educazione del popolo più che come organismi di lotta, le società operaie avevano essenzialmente scopi di solidarietà (servivano cioè ai soci per aiutarsi fra loro nei momenti di difficoltà e per organizzare elementari forme di previdenza), rifiutavano la lotta di classe e consideravano "funesto" il ricorso allo sciopero. Era dunque naturale che perdessero terreno via via che lo scontro sociale si faceva più aspro e che cominciava a diffondersi nel paese l'internazionalismo socialista, nella versione anarchica e federalista introdotta da Bakunin negli anni del suo soggiorno italiano, fra il '64 e il '67.
La crescita del movimento internazionalista ricevette un impulso decisivo dagli avvenimenti parigini del 1871. La decisa condanna pronunciata da Mazzini contro la Comune allontanò molti giovani rivoluzionari dalle file repubblicane. L'atteggiamento opposto tenuto da Garibaldi, con la sua pubblica difesa dei comunardi e con la sua adesione al socialismo - da lui definito come "il sole dell'avvenire", ma concepito in termini umanitari e sentimentali, senza grande approfondimento ideologico - ebbe invece un ruolo non secondario nella diffusione delle idee socialiste, soprattutto fra i giovani. Fino al 1871, adepti e avversari italiani dell'Internazionale non avevano fatto gran distinzione fra socialismo "scientifico" e socialismo anarchico. Ma quando si delineò la rottura fra Marx e Bakunin, la gran maggioranza degli internazionalisti italiani si schierò dalla parte di quest'ultimo.
Ancora per parecchi anni l'iniziativa restò nelle mani degli internazionalisti di orientamento anarchico, forti soprattutto in Emilia-Romagna e nelle Marche, grazie all'opera di alcuni instancabili agitatori (come Carlo Cafiero, Andrea Costa, Errico Malatesta) che, fedeli al credo bakuniniano, concentrarono i loro sforzi nell'organizzazione di moti insurrezionali, facendo leva soprattutto sul proletariato delle campagne. Ma i tentativi organizzati in questi anni - nel 1874 in Emilia-Romagna, tre anni dopo sui monti del Matese in provincia di Benevento - furono stroncati sul nascere e si conclusero con l'arresto di molti militanti.
Questo completo fallimento - imputabile alla mancata risposta delle masse contadine - indusse molti internazionalisti a riflettere sulla sterilità di qualsiasi movimento insurrezionale che non fosse preceduto da un lungo lavoro di preparazione politica. La prima autocritica venne da Andrea Costa che, in una Lettera agli amici di Romagna, scritta in carcere e pubblicata nell'estate del '79, ammoniva i suoi compagni sui rischi dell'isolamento settario e insisteva sulla necessità di elaborare un programma concreto, impegnandosi nelle lotte di tutti i giorni e dando vita a un vero e proprio partito. La "svolta" di Costa trovò una prima attuazione con la nascita, nell'estate dell'81, del Partito socialista rivoluzionario di Romagna, che avrebbe dovuto essere il primo nucleo di un "Partito rivoluzionario italiano". In realtà il partito, per quanto potesse contare su un discreto seguito (che rese possibile l'elezione di Costa nell'82), rimase sempre una formazione regionale, a base contadina e piccolo-borghese, oscillante fra le suggestioni dell'anarchismo e la pratica delle alleanze con i gruppi repubblicani e radicali, priva di legami con i nuclei operai più maturi e avanzati che intanto si andavano costituendo soprattutto in Lombardia.
Fin dall'inizio degli anni '70, circoli operai, società di miglioramento, leghe di resistenza (queste ultime esplicitamente finalizzate alla organizzazione degli scioperi) erano venuti sorgendo, ex novo o dalla trasformazione di vecchie società di mutuo soccorso, in numerosi centri industriali e avevano dato un forte impulso all'azione rivendicativa dei lavoratori: i conflitti di lavoro, che nel primo decennio unitario erano stati pochi e sporadici, crebbero in intensità e in frequenza, pur restando fatti eccezionali, ovviamente mal tollerati da imprenditori e autorità. Nella imminenza delle elezioni dell'82, alcune associazioni operaie milanesi decisero di emanciparsi dalla tutela politica esercitata fin allora (anche a fini elettorali) dai radicali e di dar vita a una formazione politica autonoma che prese il nome di Partito operaio italiano. Costituitosi nell'82, e riorganizzato su basi più ampie nell'85, esso si presentava come una formazione rigidamente classista, più federazione di associazioni operaie che vero e proprio partito politico. Di qui il suo carattere "economicista" e strettamente corporativo, che comunque non gli impedì di raggiungere, nella seconda metà degli anni '80, una notevole diffusione anche fuori dell'area lombarda.
Fermissimi nel respingere ogni apporto borghese (tanto da ammettere nelle loro file solo i lavoratori manuali), gli "operaisti" cercarono di stabilire un contatto con quel proletariato rurale della Bassa Padana che fu protagonista dei primi grandi scioperi agricoli nella storia dell'Italia unita: particolarmente imponenti quelli che si svolsero nel Mantovano e nel Polesine nel 1884-85. L'alleanza fra gli operaisti lombardi e i braccianti della Bassa Padana non poté svilupparsi in concreto per la dura repressione che colpì sia le agitazioni rurali, che furono stroncate con l'intervento dell'esercito, sia lo stesso Partito operaio, che fu messo fuori legge nel 1886. Ma già questo episodio testimoniava quel legame fra movimento operaio e lotte contadine che avrebbe costituito negli anni successivi una caratteristica peculiare del movimento socialista italiano.
Torna all'indice