9.3 La Russia di Alessandro II
Se fra le grandi potenze europee la Gran Bretagna era, intorno alla metà del secolo, la più avanzata sul piano economico e civile, all'altro estremo d'Europa, il primato dell'arretratezza spettava indubbiamente all'Impero russo. All'inizio degli anni '50, più del 90% della popolazione era occupato nell'agricoltura e oltre 20 milioni di contadini (su un totale di circa 60 milioni di abitanti) erano soggetti alla servitù della gleba: erano cioè legati alla terra che coltivavano - dunque comprati e venduti assieme ad essa - e subordinati personalmente ai proprietari, cui erano tenuti a fornire un canone in denaro o un contributo in lavoro sulle terre padronali. Nella maggior parte dei territori dell'Impero, l'organizzazione del lavoro agricolo era fondata sui mir: ossia sulle comunità di villaggio, dove assemblee composte dai capifamiglia assegnavano ai contadini i fondi da coltivare e curavano l'esazione delle imposte dovute ai signori. Un'aristocrazia terriera assenteista, propensa a consumare le proprie rendite in spese di prestigio più che a investirle in impieghi produttivi, dominava ancora incontrastata come nell'Europa dell'ancien régime. L'Impero zarista era inoltre, fra i grandi Stati del continente, l'unico assolutamente privo di istituzioni rappresentative, per quanto limitate, e governato da un gigantesco apparato burocratico-poliziesco, responsabile dei suoi atti solo di fronte allo zar.
All'immobilismo delle strutture sociali e politiche faceva singolare riscontro l'eccezionale livello della vita intellettuale. L'800 fu il secolo d'oro della letteratura russa: i grandi romanzi di Gogol e di Turghenev, di Tolstoj e di Dostojevskij ci offrono un quadro vivissimo di una società diversa in ogni suo aspetto da quella dell'Europa occidentale e ci restituiscono gli echi di un dibattito ideologico quanto mai vivace. Lontana, non solo geograficamente, dall'Inghilterra e dalla Francia, la Russia non era affatto isolata per ciò che riguardava la circolazione delle idee. I membri della nobiltà usavano compiere lunghi viaggi in Europa e si servivano abitualmente del francese come lingua colta. Anche in Russia, nonostante la censura, gli intellettuali discutevano di liberalismo, di democrazia, di socialismo, con uno sforzo costante di adattare i termini del dibattito alle condizioni peculiari del proprio paese.
Sulla questione dei rapporti con la cultura occidentale, gli intellettuali russi si divisero in due correnti contrapposte. Agli occidentalisti, che vedevano nell'adozione dei modelli politici e culturali offerti dai paesi più avanzati il mezzo più idoneo per risollevare le sorti della nazione russa, si opponevano i cosiddetti slavofili: questi si richiamavano, contro il razionalismo e l'individualismo della cultura occidentale, alle tradizioni dei popoli slavi, alla religione ortodossa, alle antiche istituzioni comunitarie radicate nella società russa.
Gli occidentalisti segnarono un punto a loro favore e qualche spiraglio cominciò ad aprirsi nella vita politica e sociale dell'Impero quando, nel 1855, alla morte di Nicola I, salì sul trono imperiale
Alessandro II. Il nuovo zar iniziò il suo regno concedendo un'amnistia ai detenuti politici e varando una serie di riforme che avevano lo scopo di introdurre elementi di modernizzazione nella burocrazia, nella scuola, nel sistema giudiziario e nell'esercito. Un parziale decentramento amministrativo fu promosso attraverso la creazione degli zemstvo, consigli distrettuali elettivi, dotati peraltro di poteri assai limitati.
Ma la riforma di gran lunga più importante cui Alessandro II legò il suo nome fu l'
abolizione della servitù della gleba. Grazie a una serie di decreti imperiali emanati nel febbraio 1861, i servi acquistarono la libertà personale e la parità giuridica con gli altri cittadini e, contemporaneamente, ebbero la possibilità di riscattare le terre che coltivavano e di trasformarsi così in piccoli proprietari. Restava in piedi l'organizzazione del mir, cui spettava fra l'altro la responsabilità di provvedere al pagamento delle rate dovute ai signori per il riscatto delle terre.
Per quanto segnasse un progresso civile di incalcolabile portata, l'abolizione della servitù, così come fu attuata, deluse coloro che avrebbero dovuto beneficiarne. L'assegnazione delle terre agli ex servi avvenne con criteri non uniformi, e comunque tali da salvaguardare le grandi proprietà. In generale, i contadini si videro assegnata una quantità di terra più piccola di quella che coltivavano prima della riforma (e che erano abituati a considerare come cosa propria, pur essendo loro stessi "proprietà" del signore) e dovettero pagare, per entrarne in possesso, una somma mediamente superiore all'effettivo valore dei fondi. Molti contadini rinunciarono all'acquisto delle terre (e si trasformarono così in proletariato rurale). I nuovi piccoli proprietari furono costretti, per far fronte all'onere degli indennizzi, a comprimere ulteriormente i loro scarsi consumi alimentari. Agli entusiasmi che avevano accompagnato l'inizio della riforma subentrò ben presto nelle campagne un clima di delusione e di malcontento, rivolto soprattutto contro i signori, accusati (a torto) di aver deliberatamente travisato e tradito l'autentica volontà dello zar. Vi furono proteste e vere e proprie ribellioni, represse con l'intervento dell'esercito.
Con le travagliate vicende legate all'emancipazione dei servi si chiuse la breve stagione liberalizzante del regno di Alessandro II. Quando, nel 1863-64, i polacchi insorsero per reclamare una più ampia autonomia, la risposta del potere zarista fu una sanguinosa repressione militare, seguita da una politica di forzata "russificazione" del paese. Anche in Russia, dopo il 1861, si assisté a un appesantimento del clima politico e a un nuovo inasprimento della censura e dei controlli polizieschi. E si accentuò di conseguenza la frattura fra il potere statale e la borghesia colta. Soprattutto fra le giovani generazioni, andarono diffondendosi atteggiamenti di rifiuto totale dell'ordine costituito: un rifiuto che poteva sboccare nell'individualismo anarchico e radicalmente pessimista dei cosiddetti "nichilisti" (dal latino nihil, nulla) o nello sforzo sincero di accostarsi in modo non paternalistico ai problemi delle classi subalterne. Fu questo il senso della parola d'ordine "andare al popolo" che ebbe ampia eco fra i giovani negli anni '60 e '70: donde il nome di "populisti" (narodniki, da narod, popolo) col quale vennero designati gli intellettuali rivoluzionari che in questo periodo tentarono, senza troppa fortuna, di compiere opera di educazione culturale e di proselitismo politico fra le masse.
Movimento complesso, difficilmente classificabile secondo le categorie occidentali, il populismo russo riuniva componenti diverse: dai gruppetti clandestini che si collegavano, per il tramite di Bakunin, al filone dell'anarchismo europeo, ai democratici occidentalisti (come lo scrittore Aleksandr Herzen), ai socialisti. Nucleo ideologico comune alle varie correnti era l'utopia di un socialismo agrario che facesse leva sul proletariato delle campagne e si inserisse nella tradizione comunitaria della società rurale russa. L'incomprensione delle masse contadine e la durezza della repressione poliziesca finirono però con l'isolare sempre più i narodniki e con lo spingerli verso la pratica cospiratoria. Questa a sua volta dava luogo a un rincrudimento dell'azione repressiva dello Stato. Quando, nel 1881, Alessandro II fu ucciso da un attentatore anarchico, le speranze che avevano accompagnato i suoi primi anni di regno non erano ormai che un lontano ricordo.
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