16.11 Il ritorno di Crispi e la sconfitta di Adua
Tornato al governo nel dicembre del 1893, Francesco Crispi affrontò con l'abituale risolutezza una situazione preoccupante sotto tutti i punti di vista, con un'opinione pubblica allarmata dalla crisi economica, sconcertata dagli scandali bancari, spaventata dall'intensificarsi delle agitazioni in Sicilia. In campo economico, il nuovo governo avviò una politica di risanamento del bilancio basata su pesanti inasprimenti fiscali e completò la riorganizzazione del dissestato sistema bancario, già iniziata da Giolitti con una legge che istituiva la Banca d'Italia. Questa avrebbe ottenuto, nel 1926, il monopolio dell'emissione e, a partire dal 1947, avrebbe svolto compiti di controllo sull'intero sistema bancario. In materia di ordine pubblico, Crispi non esitò a ricorrere a mezzi eccezionali, convinto com'era che le agitazioni sociali in atto costituissero un pericolo non solo per l'ordine costituito, ma per la stessa sicurezza dello Stato uscito dal Risorgimento (infatti vedeva, dietro il moto dei Fasci siciliani, oscuri e inesistenti complotti internazionali).
Ai primi di gennaio del 1894, lo stato d'assedio fu proclamato in Sicilia e successivamente esteso alla Lunigiana, dove si era verificato, senza alcun nesso con gli avvenimenti siciliani, un tentativo di insurrezione anarchica. La repressione militare fu dura e sanguinosa e fu accompagnata da una più generale repressione poliziesca estesa a tutto il paese e rivolta soprattutto contro circoli, leghe e giornali facenti capo al Partito socialista. I dirigenti del nuovo partito non avevano responsabilità dirette nel moto siciliano, che consideravano come una "rivolta della fame", un'espressione primitiva della lotta di classe. Ma, a repressione iniziata, avevano espresso la loro solidarietà col movimento dei Fasci, assumendosene così una sorta di corresponsabilità politica e morale.
Nel luglio 1894 il governo volle dare alla sua azione repressiva un carattere organico, facendo approvare dal Parlamento un complesso di leggi limitative della libertà di stampa, di riunione e di associazione, che ricordava da vicino la legislazione eccezionale varata una quindicina di anni prima da Bismarck in Germania. Le leggi furono definite "antianarchiche", ma avevano come obiettivo principale il Partito socialista, che nell'ottobre fu dichiarato fuori legge. Gli effetti non furono però quelli sperati da Crispi. Le persecuzioni non riuscirono a distruggere la già solida rete organizzativa su cui si reggeva il partito e accrebbero le simpatie di cui i socialisti godevano nella sinistra democratica e soprattutto negli ambienti intellettuali: si accostarono in questo periodo al socialismo molti scrittori, filosofi e scienziati, da De Amicis a Pascoli, da Cesare Lombroso a Guglielmo Ferrero. La nuova situazione spinse inoltre i dirigenti socialisti a riscoprire il valore delle libertà politiche e a riannodare i contatti con quelle forze di democrazia "borghese" (radicali e repubblicani) rispetto alle quali fin allora avevano tenuto a sottolineare soprattutto la propria autonomia. Si spiega così la decisione di attenuare l'originaria intransigenza in materia elettorale e di ammettere limitate alleanze con i partiti progressisti: una scelta che fu premiata nelle elezioni politiche del maggio 1895, dove i socialisti riuscirono a far eleggere dodici candidati.
Questo successo - limitato ma significativo per le condizioni in cui era stato ottenuto - aumentò le difficoltà del governo Crispi che, pur avendo visto la sua maggioranza rafforzata dalle elezioni, doveva subire i contraccolpi della "questione morale" sollevata nei suoi confronti dall'estrema sinistra (e soprattutto dal leader radicale Felice Cavallotti) sulla base delle rivelazioni che venivano man mano emergendo sulle responsabilità del presidente del Consiglio nello scandalo della Banca romana. Ma il colpo definitivo per Crispi venne dal fallimento del suo tentativo di conciliare la politica di austerità finanziaria, portata avanti dal ministro del Tesoro e delle Finanze Sidney Sonnino, col mantenimento di un alto livello di spese militari e con una ripresa di iniziativa in campo coloniale. Già durante il suo primo governo, Crispi aveva cercato di stabilire una qualche forma di protettorato sull'Etiopia, intavolando col nuovo negus Menelik trattative che portarono, nel 1889, alla firma del trattato di Uccialli. Ma il trattato, redatto in due versioni (in italiano e in amarico, la lingua parlata in Etiopia) non perfettamente corrispondenti, conteneva notevoli ambiguità: mentre gli italiani vi lessero un riconoscimento del loro protettorato sull'Etiopia, Menelik lo interpretò come un normale patto di amicizia e di collaborazione. Quando l'equivoco venne alla luce, i rapporti italo-etiopici si deteriorarono bruscamente. Nella primavera del 1895, gli italiani ripresero la loro penetrazione dall'Eritrea verso l'interno, scontrandosi ancora una volta con la reazione etiopica. In dicembre un distaccamento italiano rimasto isolato sull'Amba Alagi venne circondato e distrutto. Tre mesi dopo i comandi italiani, spinti dal desiderio di rivincita e sollecitati in tal senso da Crispi, decisero di attaccare il grosso dell'esercito etiopico. L'azione, imprudentemente concepita e mal preparata, si risolse in un disastro: il 1° marzo 1896, nella conca di
Adua, un esercito di circa sedicimila uomini fu praticamente distrutto dalle soverchianti forze abissine, lasciando sul terreno quasi la metà dei suoi effettivi.
La sconfitta - che aveva pochi precedenti nella storia delle guerre coloniali - ebbe immediate ripercussioni in Italia: violente manifestazioni contro la guerra d'Africa scoppiarono a Roma, a Milano e in molte altre città, mentre il governo era costretto a dimettersi. Crispi usciva così - e questa volta definitivamente - dalla scena politica. Al suo successore, che fu ancora una volta il leader dell'opposizione di destra Rudinì, non restò che concludere in tutta fretta una pace con l'Etiopia che garantisse almeno la presenza italiana in Eritrea e Somalia.
L'episodio di Adua e le reazioni che ne erano seguite avevano dimostrato quanto la guerra coloniale fosse poco sentita dalle masse popolari e da larghi strati della stessa classe dirigente (la borghesia milanese era stata in prima fila nell'opposizione alla politica africana del governo) e quanto illusorio fosse stato il tentativo di Crispi di cogliere successi di prestigio, per sé e per il paese, in un'avventura imperialistica a cui mancavano le indispensabili premesse politiche ed economiche.
Torna all'indice