8.7 Il proletariato urbano
Anche il proletariato delle città offriva, attorno alla metà del secolo, un quadro tutt'altro che omogeneo. Dappertutto, salvo che in Inghilterra, gli operai di fabbrica costituivano ancora una minoranza fra gli stessi lavoratori urbani. Numerosissimi erano invece i lavoranti di piccole officine e botteghe artigiane, i domestici, i manovali; e altrettanto numeroso era l'esercito dei lavoratori occasionali, dei vagabondi, dei mendicanti, delle prostitute: quello che Marx chiamava Lumpenproletariat (proletariato degli straccioni). Con lo sviluppo della grande industria e la decadenza della piccola impresa artigiana, il proletariato di fabbrica venne però assumendo sempre maggiore consistenza: più lentamente in Francia, più rapidamente in Germania, dove il numero dei dipendenti da grandi e medie imprese industriali passò dal mezzo milione del 1850 ai cinque milioni del 1880.
Il proletariato che si addensava nelle grandi città industriali francesi, tedesche o austriache viveva in condizioni non molto diverse da quelle descritte da Engels nel suo libro del 1845 sulla classe operaia inglese. Da un punto di vista puramente economico, gli operai godevano di un certo vantaggio rispetto ai lavoratori della terra. I salari nell'industria erano mediamente superiori a quelli del settore agricolo e crebbero lentamente negli anni '50 e '60, pur senza mai elevarsi molto al di sopra del livello di sussistenza, salvo che per alcune categorie di lavoratori specializzati (che potevano godere di paghe anche tre o quattro volte superiori a quella di un apprendista). Ma per altri aspetti la vita dell'operaio non era migliore di quella del lavoratore agricolo. L'operaio medio era sottoposto a orari di lavoro massacranti (fra le dodici e le quindici ore giornaliere); viveva in abitazioni malsane, affollate fino all'inverosimile, in condizioni igieniche disastrose, privo di qualsiasi assistenza che non fosse quella fornita dal mutuo soccorso o dalla pubblica carità. L'operaio - ha scritto in proposito Eric Hobsbawm - "ignorava all'inizio della settimana quanto alla fine avrebbe portato a casa. Ignorava quanto sarebbe durato il lavoro presente o, se lo perdeva, quando ne avrebbe trovato un altro e a quali condizioni. Ignorava che cosa sarebbe accaduto quando lo avrebbe colpito una malattia o un infortunio e, pur sapendo che prima o poi nella mezza età non sarebbe più stato in grado di compiere tutto il lavoro fisico richiesto a un adulto, ignorava cosa lo attendesse da quel momento fino alla morte".
Questi aspetti drammatici della condizione operaia contrastavano fortemente col quadro di sicurezza e di crescente prosperità offerto, e in qualche modo ostentato, dall'alta borghesia. E il contrasto era avvertito tanto più nettamente in quanto era la stessa vita nella città a evidenziarlo e a esaltarlo. Nella città l'operaio era a contatto quotidiano con le manifestazioni esteriori del modo di vita borghese (le case, i vestiti, le carrozze, i negozi). Nella città veniva meno il quadro consolidato dei rapporti sociali che sussisteva ancora nelle campagne e che faceva apparire naturale al contadino il suo stato di subordinazione. Nella città il lavoratore smarriva i tradizionali punti di riferimento culturali e religiosi: sempre più spesso alla parrocchia si sostituiva la taverna, luogo di perdizione agli occhi dei moralisti borghesi, ma anche luogo di incontri, di discussione, di scambi di esperienze. Cominciò così a maturare, all'interno e all'esterno dei luoghi di lavoro, una nuova coscienza di classe, ossia la consapevolezza di una condizione comune, unita alla spinta ad associarsi per mutare questa condizione.
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