10. L'unità d'Italia
10.1 La seconda restaurazione
In Italia, dopo il fallimento delle rivoluzioni del 1848-49, il ritorno dei sovrani legittimi segnò l'arresto di qualsiasi esperimento riformatore. Riportati sul trono, con l'eccezione del re di Napoli, da eserciti stranieri, i vecchi regnanti si adeguarono senza riserve alla politica di ricostruzione del vecchio ordine di cui dava esempio l'Austria, più che mai potenza egemone nella penisola, presente con truppe d'occupazione in tutta l'Italia centro-settentrionale. Le conseguenze di questa "seconda restaurazione" furono gravi, non solo in termini di mancata evoluzione delle strutture politiche, ma anche per ciò che concerneva lo sviluppo economico, soffocato dalla miopia delle classi dirigenti, dalla ristrettezza dei mercati e dalla scarsezza delle vie di comunicazione.
Il Lombardo-Veneto, che era stato fino a quel momento la regione economicamente più avanzata della penisola, fu sottoposto a un pesante regime di occupazione militare (governatore fu, fino al 1857, il maresciallo Radetzky) cui si accompagnò un inasprimento della già forte pressione fiscale che colpiva gli imprenditori, i commercianti e soprattutto i ceti popolari, su cui cadeva il maggior peso delle imposte indirette. Né a tutto ciò faceva riscontro un adeguato sviluppo delle opere pubbliche: le costruzioni ferroviarie, ad esempio, si svilupparono negli anni '50 in modo lento e disorganico. Nonostante la concessione di un'ampia amnistia (che escludeva però i patrioti più compromessi) e nonostante il tentativo di guadagnarsi il favore delle masse contadine con qualche alleggerimento delle imposte che gravavano sull'agricoltura, l'Impero asburgico vide così allargarsi il fossato di risentimento e di incomprensione che separava la monarchia dalle popolazioni italiane.
Negli Stati minori del Centro-nord (Granducato di Toscana, ducati di Modena e Parma), il ritorno di uomini e istituzioni dell'antico regime accentuò il distacco fra le corti e l'opinione pubblica borghese. Anche quei moderati che si erano illusi di poter riprendere il discorso costituzionale interrotto dalle rivoluzioni del '48 furono tenuti in disparte o costretti all'esilio: avrebbero finito, per lo più, col convertirsi alla causa dell'unità italiana.
Lo stesso fenomeno si verificò nel Regno delle due Sicilie e nello Stato pontificio, dove la reazione fu condotta con durezza ancora maggiore. Pio IX non tenne nel minimo conto i consigli di chi - come lo stesso Napoleone III - lo esortava a mantenere una parvenza di governo civile. Lo Stato fu riorganizzato secondo il vecchio modello teocratico-assolutistico, con qualche lieve ritocco (l'istituzione di una Consulta e di un Consiglio di Stato non elettivi) che non ne mutava i caratteri di fondo. Democratici e liberali furono perseguitati e il potere restò nelle mani di una ristretta oligarchia di prelati con al vertice il segretario di Stato cardinale Antonelli.
Anche nel Regno delle due Sicilie il ritorno al sistema assolutistico fu integrale e la repressione durissima. Centinaia di oppositori furono condannati a lunghe pene detentive: fra di essi intellettuali come Silvio Spaventa, futuro ministro del Regno d'Italia, o come Luigi Settembrini, che descrisse la sua esperienza carceraria in un celebre libro di memorie. In campo economico, la politica dei governi borbonici fu improntata a un gretto conservatorismo. Il mantenimento di alti dazi doganali, se permetteva la sopravvivenza di alcuni insediamenti industriali (stabilimenti tessili e metallurgici concentrati per lo più nelle zone di Napoli e Salerno) non abbastanza vitali per reggere la concorrenza internazionale, ostacolava lo sviluppo di una moderna agricoltura volta all'esportazione. La relativa mitezza della pressione fiscale si traduceva in una forte limitazione della spesa pubblica, quasi totalmente assorbita dalle esigenze dell'esercito e della marina. I settori più sacrificati furono così quelli dell'istruzione e delle opere pubbliche: con conseguenze disastrose in un paese che, intorno alla metà del secolo, aveva in tutto cento chilometri di ferrovie e un tasso di analfabetismo fra i più alti d'Europa. Le poche iniziative dei governi nel campo dei lavori pubblici si concentrarono a Napoli e nelle zone vicine, accentuando così lo squilibrio fra una capitale abnorme e parassitaria (che, con i suoi 450.000 abitanti, era la città più popolosa d'Italia) e il resto del paese. L'insofferenza per questo stato di cose era particolarmente viva in Sicilia, dove l'opposizione al restaurato centralismo napoletano accomunava aristocrazia, borghesia e masse popolari. Lacerato al suo interno e largamente impopolare fra i suoi sudditi, il regime borbonico era anche gravemente isolato a livello internazionale. L'arretratezza economica e sociale e la durezza della repressione fecero del Regno delle due Sicilie una specie di modello negativo agli occhi dell'opinione pubblica liberale europea. Questo isolamento fu uno dei fattori principali che avrebbero determinato, nel 1860, il rapido crollo dello Stato borbonico.
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