20.7 La politica estera, il nazionalismo, la guerra di Libia
A partire dal 1896, anno della caduta di Crispi, la politica estera italiana subì una netta correzione di rotta. Fu attenuata, pur senza rinnegare il vincolo della Triplice, la linea rigidamente filotedesca seguita nel precedente decennio. Il conseguente miglioramento dei rapporti con la Francia portò, nel 1898, alla firma di un nuovo trattato di commercio che poneva fine alla "guerra doganale" iniziata dieci anni prima e, nel 1902, a un accordo per la divisione delle sfere di influenza in Africa settentrionale: accordo con cui l'Italia otteneva il riconoscimento dei suoi diritti di priorità sulla Libia, lasciando in cambio mano libera alla Francia sul Marocco.
La nuova situazione creava però motivi di contrasto in seno alla Triplice. Il riconoscimento italiano delle aspirazioni francesi sul Marocco non piacque naturalmente ai tedeschi. E meno ancora piacque agli italiani il modo in cui l'Austria-Ungheria, con l'appoggio della Germania, procedette unilateralmente, e senza preventive consultazioni, all'annessione della Bosnia-Erzegovina nel 1908 (
18.9). L'episodio, che metteva in evidenza la posizione di partner più debole occupata dall'Italia nella Triplice, lasciò nell'opinione pubblica uno strascico di malumori e risentimenti e contribuì a determinare un clima di riscossa nazionale: dove la riscoperta delle vecchie - e quasi dimenticate - rivendicazioni irredentiste sul Trentino e la Venezia Giulia si mescolava alle richieste di una più energica affermazione in campo coloniale.
Allontanatosi il trauma delle prime e sfortunate imprese africane, molti uomini politici e intellettuali cominciavano a chiedersi perché l'Italia dovesse rassegnarsi a un destino di potenza di secondo rango, perché tanti lavoratori italiani fossero costretti a emigrare in cerca di lavoro nei paesi più ricchi anziché impegnare le loro energie al servizio della grandezza nazionale. Ebbe allora notevole fortuna la teoria formulata dallo scrittore Enrico Corradini, secondo cui il contrasto fondamentale non era più quello fra le diverse classi all'interno di un singolo paese, ma quello fra paesi ricchi e paesi poveri, fra "nazioni capitalistiche" e "nazioni proletarie" (ossia dotate di una popolazione in eccedenza rispetto alle risorse economiche). Applicata all'Italia, questa teoria portava a una contrapposizione nei confronti delle democrazie occidentali, a una ripresa dell'iniziativa coloniale e, sul piano interno, al tentativo di contenere i conflitti sociali indirizzando la spinta delle masse verso obiettivi "imperiali".
In questo clima politico e culturale poté sorgere e affermarsi un movimento nazionalista che, raccoltosi in un primo tempo attorno a riviste e circoli intellettuali, si diede una struttura organizzativa alla fine del 1910 con la fondazione dell'Associazione nazionalista italiana. Nata dalla confluenza di componenti piuttosto eterogenee (democratici e reazionari, fautori delle imprese coloniali e nostalgici dell'irredentismo), l'Associazione vide ben presto emergere un gruppo imperialista e conservatore che si rifaceva alle teorie di Corradini e che, dalle colonne del nuovo periodico romano "L'idea nazionale", diede vita a una martellante campagna in favore della conquista della Libia. In questa campagna i nazionalisti trovarono potenti alleati nei gruppi cattolico-moderati legati alla finanza vaticana e in particolare al Banco di Roma, da anni impegnato in una opera di penetrazione economica in terra libica.
Sia la pressione dei gruppi legati al Banco di Roma, sia la campagna della stampa nazionalista - che, senza troppi scrupoli di verità, si diede a esaltare le presunte ricchezze naturali della Libia e gli sbocchi che essa avrebbe potuto offrire all'emigrazione - contribuirono a spingere l'Italia sulla via dell'intervento. La spinta decisiva venne però dalle vicende della politica internazionale, in particolare dagli sviluppi della seconda "crisi marocchina" dell'estate 1911 (
18.9). Quando apparve chiaro che la Francia si apprestava a imporre il suo protettorato sul Marocco, il governo italiano ritenne giunto il momento di far valere gli accordi del 1902 e, nel settembre del 1911, inviò sulle coste libiche un contingente di 35.000 uomini, scontrandosi però contro la reazione dell'Impero turco, che esercitava su quei territori una sovranità poco più che nominale.
La guerra fu più lunga e difficile del previsto, anche perché i turchi, anziché accettare uno scontro campale, preferirono fomentare la guerriglia condotta con decisione dalle popolazioni arabe. Per venire a capo della resistenza, l'Italia dovette non solo rinforzare il corpo di spedizione (che fu portato a circa 100.000 unità), ma anche estendere il teatro di guerra al Mare Egeo occupando l'isola di Rodi e l'arcipelago del Dodecanneso. Solo nell'ottobre del 1912 i turchi acconsentirono a firmare la pace di Losanna, rinunciando alla sovranità politica sulla Libia e conservando per il sultano solo un'autorità religiosa sulle popolazioni musulmane. La pace non valse, peraltro, a far cessare la resistenza araba; e da ciò gli italiani trassero pretesto per mantenere l'occupazione di Rodi e del Dodecanneso. Dal punto di vista economico, poi, la conquista della Libia si rivelò un pessimo affare. I costi della guerra furono molto pesanti; le ricchezze naturali favoleggiate dai nazionalisti si scoprirono scarse o inesistenti (nessuno sospettava allora la presenza di petrolio sotto lo "scatolone di sabbia" del deserto libico); la colonizzazione delle zone costiere non bastò ad assorbire quote consistenti di lavoratori.
Nonostante tutto ciò, il paese seguì l'impresa con spirito ben diverso da quello con cui aveva seguito le avventure africane di Crispi. Non mancarono, anche questa volta, gli oppositori decisi: i socialisti, che organizzarono manifestazioni contro la guerra, una parte dei repubblicani e dei radicali, oltre ad alcuni intellettuali indipendenti, come Gaetano Salvemini, che si sforzarono di contrastare le falsificazioni della propaganda colonialista. Ma la maggioranza dell'opinione pubblica borghese - grazie anche alla campagna orchestrata dai principali giornali d'opinione - si schierò a favore dell'impresa coloniale, la appoggiò con manifestazioni patriottiche, accolse con soddisfazione il fatto che l'Italia fosse riuscita, a sedici anni dal disastro di Adua, a condurre in porto la sua prima campagna militare vittoriosa.
Il successo politico e propagandistico dell'impresa non si risolse però in un durevole consolidamento del governo. Al contrario, la guerra di Libia, introducendo elementi di radicalizzazione nel dibattito politico, scosse pericolosamente gli equilibri su cui si reggeva il sistema giolittiano e favorì il rafforzamento delle ali estreme. La destra liberale, i clerico-conservatori e soprattutto i nazionalisti trassero nuovo slancio dal buon esito di un'impresa che avevano fermamente e rumorosamente sostenuto. Sull'opposto versante, quello socialista, l'opposizione alla guerra fece emergere le tendenze più radicali e indebolì quelle correnti riformiste e collaborazioniste che avevano costituito fin allora un elemento non secondario degli equilibri politici giolittiani.
Torna all'indice