17.10 Ortodossia ed eresie del marxismo
Negli anni della Seconda Internazionale, il movimento operaio europeo ebbe, di fatto, una dottrina ufficiale. Questa dottrina fu il marxismo, nella versione, adattata alle nuove realtà della politica europea, che era stata elaborata e divulgata da Friedrich Engels (consigliere e capo spirituale, finché fu in vita, dell'intero movimento socialista europeo) e che aveva trovato i suoi interpreti più autorevoli nei leader della socialdemocrazia tedesca: in particolare in
Karl Kautsky, assurto, dopo la morte di Engels, al ruolo di massimo teorico del partito. Engels e Kautsky non mettevano in discussione i fondamenti teorici del Capitale né gli obiettivi strategici assegnati da Marx al movimento operaio, ma ponevano l'accento sulle fasi intermedie del processo rivoluzionario, sulla partecipazione alle elezioni, sulle lotte per la democrazia e per le riforme. Ritenevano inevitabile uno scontro finale fra borghesia e proletariato, ma lasciavano intendere che tale scontro sarebbe stato provocato dalla stessa borghesia, incapace di arrestare altrimenti la pacifica crescita del movimento operaio all'interno delle istituzioni liberali.
Inizialmente questa posizione fu grosso modo fatta propria dalla maggioranza dei socialisti europei. Col passare del tempo, però, presero corpo due diverse e opposte tendenze: da un lato, quella a prendere atto dei mutamenti intervenuti nella situazione politica e sociale per valorizzare l'aspetto democratico-riformistico dell'azione socialista; dall'altro, il tentativo di bloccare le tentazioni legalitarie e parlamentaristiche recuperando l'originaria impostazione rivoluzionaria del marxismo.
L'interprete più lucido e coerente della prima tendenza fu il tedesco
Eduard Bernstein. In un volume apparso nel 1899 e intitolato I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia, Bernstein partiva dalla constatazione di una serie di fatti che andavano in senso contrario alle previsioni di Marx: il proletariato non si impoveriva, ma migliorava lentamente la sua condizione; il capitalismo rivelava una insospettata capacità di modificarsi e di superare le crisi; lo Stato borghese diventava sempre più Stato democratico. In questa situazione, i partiti operai dovevano abbandonare le vecchie pregiudiziali di intransigenza, collaborare con le altre forze progressiste, "accettare di essere i partiti delle riforme sociali e democratiche". La società socialista non sarebbe nata da una rottura rivoluzionaria, ma da una trasformazione graduale realizzata grazie al lavoro quotidiano delle organizzazioni operaie e soprattutto del movimento sindacale. In questo lavoro, e non nel mito della dittatura del proletariato, stava, per Bernstein, la sostanza del socialismo: ovvero, secondo una formula diventata poi celebre, "tutto è nel movimento, niente è nel fine".
Le tesi di Bernstein - che furono definite revisioniste in quanto implicavano una profonda "revisione" della teoria marxista - suscitarono un acceso dibattito in seno al movimento socialista internazionale. I maggiori esponenti del marxismo "ortodosso", a cominciare da Kautsky, le respinsero con decisione, sostenendo che le tendenze monopolistiche e imperialistiche del capitalismo avrebbero provocato non l'attenuazione ma l'inasprimento della lotta di classe. Anche quei dirigenti che da tempo si muovevano su una linea democratico-riformista rifiutarono di abbracciare le idee revisioniste fino alle loro ultime conseguenze.
Negli stessi anni in cui si sviluppava il dibattito sulle tesi di Bernstein, il movimento operaio vide emergere nelle sue file - soprattutto fra le giovani generazioni - nuove correnti di estrema sinistra che non si limitavano a condannare il revisionismo, ma contestavano la politica "centrista" dei dirigenti socialdemocratici tedeschi ed europei, accusati di mascherare, dietro un'apparente fedeltà agli ideali rivoluzionari, una pratica riformista e legalitaria. In Germania un'agguerrita minoranza di sinistra si formò attorno a Karl Liebknecht e a Rosa Luxemburg, una giovane intellettuale di origine polacca. Gruppi analoghi, seppur variamente ispirati, si formarono in tutti i più importanti partiti europei, giungendo in qualche caso a minacciare l'egemonia delle correnti centriste.
Una dissidenza tutta particolare, date le condizioni in cui maturò, fu quella che si sviluppò nella socialdemocrazia russa e che ebbe per protagonista l'allora poco più che trentenne Vladimir Il'ič Ul'janov, più noto con lo pseudonimo di
Nikolaj Lenin. In un opuscolo pubblicato nel 1902 col titolo Che fare?, Lenin contestava il modello organizzativo del suo partito, ispirato a quello della socialdemocrazia tedesca, e gli contrapponeva il progetto di un partito tutto votato alla lotta, formato da militanti scelti e guidato da "rivoluzionari di professione", con una direzione fortemente accentrata. Questa concezione - che faceva del partito non tanto l'espressione delle classi lavoratrici quanto la loro guida intellettuale e la loro avanguardia - contrastava con tutta la tradizione del movimento operaio occidentale, ma si adattava alla situazione di un partito come quello russo, costretto alla quasi completa clandestinità. In un congresso della socialdemocrazia russa, svoltosi in esilio a Londra nel 1903, le tesi di Lenin ottennero, sia pur di stretta misura, la maggioranza dei consensi. Il partito si spaccò allora in due correnti: quella bolscevica (cioè maggioritaria) guidata da Lenin e quella menscevica (ossia minoritaria) la quale faceva capo a Julij Martov. Una divisione che sul momento non destò eccessivo interesse, poiché riguardava un partito fra i meno importanti della Seconda Internazionale.
Un dibattito ampio e vivace fu invece suscitato dal profilarsi di un'altra dissidenza di sinistra, che ebbe origine in Francia e prese il nome di sindacalismo rivoluzionario. Contrariamente a quanto accadeva nella maggior parte dei paesi europei, i sindacati francesi si muovevano su una linea anarchico-rivoluzionaria del tutto estranea alle impostazioni prevalenti nella Seconda Internazionale. Furono i dirigenti sindacali francesi a formulare la teoria secondo cui compito dei sindacati non era tanto quello di strappare concessioni economiche alla controparte, ma anche e soprattutto quello di addestrare i lavoratori alla lotta contro la società borghese e di prefigurare una nuova organizzazione sociale basata - secondo una formula già usata da Proudhon - sull'"autogoverno dei produttori" e sul rifiuto di ogni forma di rappresentanza politica. Il momento più importante dell'azione operaia era individuato nello sciopero, visto come una "ginnastica rivoluzionaria" utile a rendere i lavoratori consapevoli della loro forza e a prepararli al grande sciopero generale rivoluzionario che avrebbe segnato la caduta della società borghese. Queste idee trovarono il loro interprete più autorevole in un intellettuale "esterno" al movimento operaio: il francese
Georges Sorel che, in alcuni scritti apparsi nel 1904-5 (e raccolti poi in volume col titolo Considerazioni sulla violenza), esaltò la funzione liberatoria della violenza proletaria e insistette sull'importanza dello sciopero generale come mito capace di trascinare gli operai alla lotta.
Il sindacalismo rivoluzionario non riuscì a piantare solide radici nei principali partiti socialisti; ma esercitò una forte suggestione su molti intellettuali e anche su frange consistenti della classe operaia, soprattutto nei paesi latini (dove si legò alla sempre viva tradizione anarchica), contribuendo alla radicalizzazione dello scontro sociale che si verificò in Europa negli anni precedenti la prima guerra mondiale.
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