7.6 La rivoluzione in Italia
La rivoluzione del '48 in Italia ebbe, nella sua fase iniziale, uno sviluppo autonomo rispetto agli altri paesi europei. Già all'inizio dell'anno, tutti gli Stati italiani apparivano percorsi da un generale fermento. I timidi esperimenti riformatori attuati nel '46-47 nello Stato pontificio, in Piemonte e in Toscana avevano accentuato la mobilitazione dell'opinione pubblica e moltiplicato le aspettative di un'evoluzione interna dei vecchi regimi. Primo e fondamentale obiettivo comune a tutte le correnti politiche era la concessione di costituzioni (o statuti) fondate sul sistema rappresentativo.
Fu la sollevazione di
Palermo del 12 gennaio 1848 - legata soprattutto alle tradizionali rivendicazioni autonomistiche dei siciliani - a determinare il primo successo in questa direzione, inducendo Ferdinando II di Borbone - il più retrogrado di tutti i regnanti della penisola - ad annunciare, il 29 gennaio, la concessione di una costituzione nel Regno delle due Sicilie.
La mossa inattesa di Ferdinando II non bastò a spegnere il moto autonomistico siciliano ed ebbe inoltre l'effetto di rafforzare l'agitazione costituzionale in tutto il resto d'Italia. Spinti dalla pressione dell'opinione pubblica e dalle continue dimostrazioni di piazza, prima Carlo Alberto di Savoia, poi Leopoldo II di Toscana, infine lo stesso Pio IX si decisero a concedere la costituzione. Annunciate - salvo quella di Pio IX - prima dello scoppio della rivoluzione di febbraio in Francia, le costituzioni del '48 avevano tutte un carattere fortemente moderato ed erano ispirate al modello di quella francese del 1830. La più importante di tutte, lo
Statuto che fu promesso da Carlo Alberto l'8 febbraio e che sarebbe poi diventato la legge fondamentale del Regno d'Italia, prevedeva una Camera dei deputati (le cui modalità di elezione furono stabilite da una apposita legge, che legava il diritto di voto a un censo piuttosto elevato), un Senato di nomina regia e una stretta dipendenza del governo dal sovrano (p. 144-5). Una soluzione costituzionale-moderata si andava dunque delineando nei maggiori Stati italiani, quando lo scoppio della rivoluzione in Francia e nell'Impero asburgico giunse a mutare i termini del problema, dando nuovo spazio all'iniziativa dei democratici e riportando in primo piano la questione nazionale, fin allora rimasta in ombra.
Nei giorni immediatamente successivi alla rivolta di Vienna, si sollevarono anche Venezia e Milano. A
Venezia, il 17 marzo, una grande manifestazione popolare aveva imposto al governatore austriaco la liberazione dei detenuti politici, fra cui era il capo dei democratici, l'avvocato Daniele Manin. Pochi giorni dopo, una rivolta degli operai dell'Arsenale militare cui si unirono numerosi marinai e ufficiali (la marina asburgica era composta in larga parte da veneti) costringeva i reparti austriaci a capitolare. Il 23 un governo provvisorio presieduto da Manin proclamava la costituzione della Repubblica veneta.
A
Milano l'insurrezione iniziò il 18 marzo, con un assalto al palazzo del governo, e si protrasse per cinque giorni, le celebri "cinque giornate" milanesi. Borghesi e popolani combatterono fianco a fianco sulle barricate contro il contingente austriaco, forte di quindicimila uomini comandati dal maresciallo Radetzky. Ma furono soprattutto gli operai e gli artigiani a sostenere il peso fisico degli scontri, che costarono agli insorti circa quattrocento morti. La direzione delle operazioni fu assunta da un "consiglio di guerra" composto prevalentemente da democratici e guidato da Carlo Cattaneo. Anche gli esponenti dell'aristocrazia liberale, inizialmente favorevoli a un compromesso col potere imperiale, finirono, dopo molte esitazioni, per appoggiare la causa degli insorti e diedero vita, il 22 marzo, a un governo provvisorio. Il giorno stesso Radetzky, preoccupato per l'eventualità di un intervento del Piemonte, decise di ritirare le sue truppe ai confini tra Veneto e Lombardia, all'interno del cosiddetto quadrilatero formato dalle fortezze di Verona, Legnago, Mantova e Peschiera.
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