27.8 Apogeo e declino del regime fascista
La vittoriosa campagna contro l'Etiopia segnò, per il regime fascista, l'apogeo del successo e della popolarità. Ma, svaniti gli entusiasmi che avevano accompagnato l'impresa coloniale, il fronte apparentemente compatto dei consensi conobbe alcune significative incrinature e il distacco fra regime e paese si andò lentamente ma inesorabilmente allargando.
A suscitare disagio e perplessità era innanzitutto la politica economica fascista, sempre più ispirata a motivi di prestigio nazionale e condizionata dal peso delle spese militari, che oltretutto servivano, più che a realizzare un vero riarmo, a domare i residui focolai di guerriglia in Etiopia e a sostenere i costi dell'intervento in Spagna. Alla fine del '35, traendo spunto dall'episodio delle sanzioni, Mussolini decise di intensificare e di rilanciare la politica dell'autarchia, già abbozzata negli anni '20 (si pensi alla battaglia del grano) e consistente nella ricerca di una sempre maggiore autosufficienza economica, soprattutto nel campo dei prodotti e delle materie prime indispensabili in caso di guerra. In pratica l'autarchia si tradusse in una ulteriore stretta protezionistica, in un più intenso sfruttamento del sottosuolo e in un incoraggiamento alla ricerca applicata, soprattutto nel campo delle fibre e dei combustibili sintetici. Molte industrie - chimiche, metallurgiche, meccaniche, minerarie - trassero dall'autarchia cospicui vantaggi. Ma non mancarono nelle alte sfere economiche le perplessità nei confronti di una politica che implicava fra l'altro uno stretto controllo governativo sulla produzione, il commercio e gli scambi valutari. I risultati finali dell'autarchia non furono brillanti. L'autosufficienza rimase un traguardo irraggiungibile, nonostante i progressi in alcuni settori. L'indice della produzione industriale crebbe, ma piuttosto lentamente. Crebbero anche i prezzi e ciò comportò (nonostante la concessione di modesti aumenti salariali) un peggioramento nei livelli di vita delle classi popolari.
A questi concreti motivi di disagio si aggiungevano le diffuse preoccupazioni per il nuovo indirizzo di politica estera attuato da Mussolini e dal suo principale collaboratore di questi anni: suo genero Galeazzo Ciano, assurto poco più che trentenne - con una decisione che non mancò di suscitare scalpore - alla carica di ministro degli Esteri. L'aspetto che più inquietava l'opinione pubblica era senza dubbio l'amicizia con la Germania: un'amicizia che urtava contro le tradizioni del Risorgimento e della grande guerra, e soprattutto contro la diffusa antipatia (anche se talvolta mista a una certa dose di ammirazione) di cui era oggetto lo Stato nazista. La nuova politica mussoliniana si mostrava inoltre priva di risultati immediati (al contrario, non mancavano gli scacchi clamorosi come quello dell'Anschluss) e faceva sembrare più vicina l'eventualità di una nuova guerra europea. Non fu un caso se le uniche manifestazioni di spontaneo entusiasmo popolare di questo periodo si ebbero in coincidenza col ritorno di Mussolini dalla conferenza di Monaco e furono rivolte al duce in quanto presunto salvatore della pace.
Ma le aspirazioni alla pace contrastavano profondamente con le convinzioni e i programmi di Mussolini, nelle cui mani stava l'assoluto controllo delle scelte politiche del paese. Il duce auspicava per l'Italia un avvenire di conquiste e di confronti militari. Persuaso che un nuovo conflitto generale sarebbe scoppiato in un futuro non lontano (anche se ne prevedeva l'inizio in tempi più lunghi di quelli che poi si sarebbero dati), Mussolini pensava che gli italiani avrebbero dovuto non solo armarsi adeguatamente, ma anche rinnovarsi nel profondo, trasformandosi in quello che non erano mai stati: un popolo di attitudini e di tradizioni guerriere. Ciò implicava da parte del duce un atteggiamento duro e quasi punitivo nei confronti della popolazione, in particolare della borghesia, intesa non tanto come classe sociale quanto come atteggiamento mentale (tendenza agli agi e alla vita comoda, ricerca del profitto anteposta al perseguimento di ideali superiori) che doveva essere definitivamente estirpato dal costume nazionale.
Per avvicinarsi a questo obiettivo il regime avrebbe dovuto diventare più totalitario di quanto non fosse stato fin allora. Di qui scaturirono una serie di modifiche istituzionali, che andavano dalla creazione del ministero per la Cultura popolare all'accorpamento delle organizzazioni giovanili nella Gioventù italiana del littorio, dall'ampliamento delle funzioni del Pnf alla sostituzione, nel 1939, della Camera dei deputati con una nuova Camera dei fasci e delle corporazioni dove, abolita ogni finzione elettorale, si entrava semplicemente in virtù delle cariche ricoperte negli organi di regime. A una medesima logica rispondevano alcune iniziative di carattere più che altro formale, e quasi folkloristico, che tuttavia possono dare un'idea del clima di quegli anni: la campagna contro l'uso del "lei" (considerato "servile" e poco italiano e da sostituirsi quindi col "voi") e contro tutti i termini stranieri; l'imposizione della divisa ai funzionari pubblici; l'adozione del "passo romano" (una variante del "passo dell'oca" in uso nell'esercito tedesco) per conferire un aspetto più marziale alle sfilate militari.
Ma la manifestazione più seria e più aberrante della stretta totalitaria voluta da Mussolini fu l'introduzione, nell'autunno del 1938, di una serie di leggi discriminatorie nei confronti degli ebrei: leggi che ricalcavano, sia pur in forma attenuata, quelle naziste del '35, escludendo gli israeliti da qualsiasi ufficio pubblico, limitandone l'attività professionale e vietando i matrimoni misti. Preannunciata da un manifesto di sedicenti scienziati (che sosteneva l'esistenza di una "pura razza italiana" di indiscutibile origine ariana) e preparata da un'intensa campagna di stampa, la legislazione razziale giunse tuttavia del tutto inattesa in un paese che non aveva mai conosciuto - al contrario della Germania, della Russia e della stessa Francia - forme di antisemitismo diffuso: anche perché la comunità ebraica era assai poco numerosa (circa 50.000 persone concentrate per lo più a Roma e nelle città del Centro-nord) e complessivamente ben integrata nella società. Adottando queste misure, tanto gratuite quanto moralmente ripugnanti, Mussolini si proponeva di inoculare nel popolo italiano il germe dell'orgoglio razziale e di fornirgli così un nuovo motivo di aggressività e compattezza nazionale. Ma, anziché suscitare consenso e mobilitazione popolare (non vi furono in Italia, né allora né in seguito, episodi di violenza popolare contro gli ebrei), le leggi razziali suscitarono sdegno, sconcerto o quanto meno perplessità nell'opinione pubblica e aprirono per giunta un serio contrasto con la Chiesa, contraria non tanto alla discriminazione in sé quanto alle sue motivazioni biologico-razziali.
In generale, lo sforzo compiuto da Mussolini sul finire degli anni '30 per fare del regime fascista un totalitarismo "perfetto" e per trasformare gli italiani in un popolo guerriero ottenne risultati decisamente mediocri. L'unico settore in cui le aspirazioni "totalitarizzanti" ottennero qualche successo di rilievo fu quello giovanile. I ragazzi cresciuti nelle organizzazioni di regime, gli studenti inquadrati nei Gruppi universitari fascisti, i giovani più impegnati intellettualmente che ogni anno partecipavano a migliaia ai littoriali della cultura (concorsi nazionali riservati ai migliori studenti medi e universitari) si abituarono a "pensare fascista", a considerare il regime come una realtà immutabile, come un quadro di riferimento obbligato nelle sue linee di fondo. Anche coloro che - magari prendendo troppo sul serio certe proclamazioni rivoluzionarie del duce - svilupparono attività di fronda più o meno aperta, lo fecero per lo più in nome del "vero" fascismo delle origini o di un nuovo fascismo ancora tutto da inventare.
Fu solo con lo scoppio del conflitto e con i primi rovesci bellici che il fascismo cominciò a perdere progressivamente il sostegno sul quale più contava: quello appunto dei giovani. I quali, diventati nel frattempo soldati e ufficiali, vissero in prima persona il drammatico fallimento di un regime che, avendo puntato tutto sulla politica di potenza e sull'esaltazione bellica, si dimostrò poi incapace di preparare sul serio la guerra, la perse rovinosamente e finì per questo col crollare come un castello di carte.
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