32.3 Dalla liberazione alla Repubblica
La prima occasione di confronto fra i partiti all'indomani della liberazione si presentò al momento di scegliere il successore di Bonomi, dimessosi in giugno per lasciare il posto a un governo più rappresentativo dell'Italia liberata. Dopo un lungo braccio di ferro fra socialisti e democristiani, i partiti trovarono l'accordo sul nome di
Ferruccio Parri, leader di una formazione minore come il Partito d'azione, ma investito di un grande prestigio personale, in quanto era stato uno dei capi militari della Resistenza.
Formato un ministero con la partecipazione di tutti i partiti del Cln, Parri cercò di promuovere un processo di normalizzazione nel paese ancora sconvolto dagli strascichi della guerra e mise all'ordine del giorno lo spinoso problema dell'epurazione (che avrebbe dovuto applicarsi non solo ai funzionari statali, ma anche agli esponenti del potere economico più compromessi col fascismo). Annunciò inoltre una serie di provvedimenti volti a colpire con forti tasse le grandi imprese e a favorire la ripresa delle piccole e medie aziende. Ma in questo modo Parri suscitò l'opposizione delle forze moderate, in particolare del Pli, che in novembre ritirò la fiducia al governo, determinandone la caduta.
La Dc riuscì allora a imporre la candidatura di
Alcide De Gasperi: segno di un mutamento di clima intervenuto rispetto a pochi mesi prima, ma anche di una obiettiva posizione di forza acquisita dal partito cattolico. Il nuovo governo si reggeva sempre sulla partecipazione di tutti i partiti del Cln. Ma inaugurava ugualmente una svolta in senso moderato destinata poi a rivelarsi irreversibile. I progetti di riforme economiche furono rapidamente accantonati. Quasi tutti i prefetti nominati dai Cln nell'Italia settentrionale furono sostituiti da funzionari di carriera. L'epurazione fu fortemente rallentata: finché, nel giugno '46, non fu lo stesso Togliatti, nella sua qualità di ministro della Giustizia, a varare una larga amnistia che in pratica metteva la parola fine a un'operazione molto difficile da condurre con equità, anche per l'ampiezza delle adesioni di cui il fascismo aveva goduto. Il riflusso delle prospettive di radicale rinnovamento che avevano accompagnato la lotta di liberazione lasciò nei militanti di sinistra, e soprattutto negli ex partigiani, un forte senso di delusione che spesso si tradusse in manifestazioni di protesta. Ma il Pci e il Psiup non potevano cavalcare questa ondata di risentimento: sia perché non volevano rompere la solidarietà di governo, sia perché speravano in un successo elettorale che avrebbe consentito loro di assumere la guida del paese.
Il governo aveva infatti fissato al 2 giugno 1946 la data per le elezioni dell'Assemblea costituente: le prime consultazioni politiche libere dopo venticinque anni, e le prime in cui avevano diritto a votare anche le donne. In quello stesso giorno i cittadini sarebbero stati chiamati a decidere, mediante referendum, se mantenere in vita l'istituto monarchico o fare dell'Italia una repubblica. Il 9 maggio, quando mancavano poche settimane al voto, Vittorio Emanuele III, con una decisione a sorpresa, tentò di risollevare le sorti della dinastia sabauda, abdicando in favore del figlio
Umberto II, che dal giugno '44 aveva svolto le funzioni di luogotenente del Regno. Ma la mossa non ottenne gli effetti sperati. Nelle votazioni del 2 giugno, caratterizzate da un'affluenza senza precedenti nella storia delle elezioni libere in Italia (circa il 90% degli aventi diritto), la repubblica si affermò con un margine abbastanza netto. 12.700.000 voti contro 10.700.000 per la monarchia. Il 13 giugno, dopo la proclamazione ufficiale dei risultati, Umberto II partì per l'esilio in Portogallo. Nelle elezioni per la Costituente, la Dc si affermò come il primo partito col 35,2% dei voti, seguita a notevole distanza dal Psiup (20,7) e subito dopo dal Pci (19). L'Unione democratica nazionale che raccoglieva, assieme ai liberali e ai "demolaburisti" di Bonomi, i maggiori esponenti della classe dirigente prefascista, non andò al di là del 6,8%: poco più dei qualunquisti (5,3%) e dei repubblicani (4,4%). Il quadro era completato dal modesto risultato dei monarchici (2,8%) e dall'autentica disfatta del Partito d'azione che ebbe solo l'1,5% dei voti.
Rispetto alle ultime elezioni prefasciste, era evidente l'ulteriore avanzata dei partiti di massa e la crisi definitiva dei vecchi gruppi liberal-democratici, ormai sostituiti dalla Dc nella rappresentanza dell'Italia moderata. La sinistra risultava complessivamente rafforzata, ma non tanto da risultare maggioritaria; e vedeva mutati i rapporti di forza al suo interno, col Psiup ancora in leggero vantaggio, ma insidiato da vicino dal Pci. Nel complesso, i risultati del 2 giugno mostravano che gli elettori italiani avevano definitivamente voltato pagina rispetto all'esperienza fascista, che in materia di scelte istituzionali non si erano lasciati spaventare dalla minaccia del "salto nel buio" agitata dai monarchici; che nella stragrande maggioranza avevano dato la loro fiducia ai partiti democratici e antifascisti. Quegli stessi risultati, però, se analizzati regione per regione, rivelavano che la vittoria repubblicana si reggeva tutta sul voto del Centro-nord (mentre il Sud aveva dato una forte maggioranza alla monarchia) e che anche il voto politico si era distribuito in modo tutt'altro che omogeneo, con la sinistra nettamente maggioritaria nel Nord, ma debolissima nel Mezzogiorno. Le spaccature ereditate dalla guerra e da tutta la storia del paese si riproponevano nella nuova Italia democratica e ne rendevano più difficile il cammino.
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