24.9 Verso lo Stato autoritario
Una volta assunta la guida del governo, Mussolini continuò ad alternare la linea dura alla linea morbida, le promesse di normalizzazione moderata alle minacce di una seconda ondata rivoluzionaria. Ciò gli fu possibile anche per la miopia delle altre forze politiche, in particolare degli alleati liberali e cattolici (i cosiddetti fiancheggiatori). A dissolvere le illusioni dei moderati non valse il tono ricattatorio usato da Mussolini alla Camera nel dibattito sulla fiducia al governo ("Potevo fare di quest'aula sorda e grigia un bivacco di manipoli. Potevo sprangare il Parlamento e costituire un governo esclusivamente di fascisti. Potevo, ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto"). Né valsero i due provvedimenti con cui il Partito fascista assumeva ruolo e funzioni incompatibili con i princìpi basilari dello Stato liberale. Nel dicembre '22 fu istituito il Gran consiglio del fascismo, che aveva il compito di indicare le linee generali della politica fascista e di servire da raccordo fra partito e governo. Nel gennaio '23 le squadre fasciste furono inquadrate nella Milizia volontaria per la sicurezza nazionale: un corpo armato di partito che aveva come scopo dichiarato quello di "proteggere gli inesorabili sviluppi della rivoluzione", ma che, nelle intenzioni di Mussolini, doveva anche disciplinare lo squadrismo e limitare il potere dei "ras".
L'istituzionalizzazione della Milizia non servì peraltro a far cessare le violenze illegali contro gli oppositori, alle quali ora si sommava la repressione "legale" condotta dalla magistratura e dagli organi di polizia mediante sequestri di giornali, scioglimenti di amministrazioni locali, arresti preventivi di militanti. Le vittime principali della repressione furono i comunisti, costretti già dal '23 a una sorta di semiclandestinità. Le conseguenze di questa azione combinata su quel poco che restava delle organizzazioni del movimento operaio furono disastrose. Il sindacato non fascista si ridusse a sopravvivere solo in alcune categorie più compatte, come i metalmeccanici della Fiom. Il numero degli scioperi, già in rapido calo a partire dal '21, scese nel '23 a livelli insignificanti. I salari reali subirono una costante riduzione, riavvicinandosi ai livelli dell'anteguerra.
La compressione salariale era del resto una componente importante della politica economica del governo, che, fedele alle promesse della vigilia, mirò soprattutto a restituire libertà d'azione e margini di profitto all'iniziativa privata. Furono alleggerite le tasse gravanti sulle imprese; fu abolito il monopolio statale delle assicurazioni sulla vita, istituito nel '12; il servizio telefonico, già affidato a un'azienda statale, fu privatizzato. Si cercò infine di contenere la spesa pubblica con un energico sfoltimento nei ruoli del pubblico impiego, che colpì, con oltre 20.000 licenziamenti, soprattutto la combattiva categoria dei ferrovieri. Su un piano strettamente economico, la politica liberista, impersonata soprattutto dal ministro delle Finanze De Stefani, parve ottenere discreti successi: fra il '22 e il '25 vi fu un notevole aumento della produzione, sia industriale sia agricola, e il bilancio dello Stato tornò in pareggio. Questo risultato era in buona parte dovuto all'opera degli ultimi ministeri liberali; ma valse ugualmente a rafforzare il governo e a rinsaldare i legami fra potere economico e fascismo.
Un altro sostegno decisivo Mussolini lo ebbe da una Chiesa cattolica in cui, dopo l'avvento (febbraio '22) del nuovo papa
Pio XI, stavano riprendendo il sopravvento le tendenze più conservatrici. Per molti cattolici, il fascismo, a prescindere dai suoi orientamenti ideologici, aveva il merito di aver allontanato il pericolo di una rivoluzione socialista e di aver restaurato il principio di autorità. Dal canto suo Mussolini, abbandonati i toni anticlericali tipici del primo fascismo, fu prodigo di riconoscimenti per la "missione universale" della Chiesa e si mostrò disposto a importanti concessioni. Anche la riforma scolastica varata nella primavera del '23 dall'allora ministro della Pubblica istruzione, il filosofo Giovanni Gentile, andava incontro per molti aspetti alle attese del mondo cattolico: la riforma prevedeva infatti, oltre all'insegnamento della religione nelle scuole elementari, l'introduzione di un esame di Stato al termine di ogni ciclo di studi (una misura da tempo richiesta dai cattolici, in quanto metteva sullo stesso piano scuole pubbliche e scuole private). La prima vittima dell'avvicinamento fra Chiesa e fascismo fu il Partito popolare, considerato ormai dalle gerarchie ecclesiastiche un ostacolo sulla via del miglioramento dei rapporti con lo Stato. Nell'aprile '23 Mussolini impose le dimissioni dei ministri popolari. Poco dopo, don Sturzo, sotto le pressioni del Vaticano, lasciò la segreteria del Ppi.
Liberatosi del più forte e del più scomodo fra i suoi alleati di governo, Mussolini aveva il problema di rafforzare la sua maggioranza parlamentare, sanzionando al tempo stesso la posizione di preminenza del fascismo. Fu questo lo scopo della nuova legge elettorale maggioritaria, varata nel luglio '23 col voto favorevole di buona parte dei liberali e dei cattolici di destra. La legge avvantaggiava vistosamente la lista che avesse ottenuto la maggioranza relativa (con almeno il 25 % dei voti) assegnandole i due terzi dei seggi disponibili. Quando, all'inizio del '24, la Camera fu sciolta, molti esponenti liberali (compresi Orlando e Salandra) e alcuni cattolici conservatori accettarono di candidarsi assieme ai fascisti nelle liste nazionali presentate in tutti i collegi col simbolo del fascio. Si riformava così il blocco delle elezioni del '21, ma questa volta a parti invertite, con i fascisti in posizione di forza dominante. Le forze antifasciste erano invece profondamente divise. I due partiti socialisti, i comunisti, i popolari, i liberali d'opposizione guidati da Giovanni Amendola e gli altri partiti minori si presentarono ciascuno con proprie liste: il che significava condannarsi a sicura sconfitta.
Nonostante questo vantaggio iniziale, i fascisti non rinunciarono alla violenza contro gli avversari, sia durante la campagna elettorale sia nel corso delle votazioni, che ebbero luogo il 6 aprile 1924. La scontata vittoria fascista assunse così proporzioni clamorose, tanto da rendere inutile il meccanismo della legge maggioritaria. Le "liste nazionali" ottennero infatti il 65% dei voti e più di tre quarti dei seggi. Il successo fu massiccio soprattutto nel Mezzogiorno e nelle isole, cioè nelle regioni in cui il fascismo aveva minori radici, ma si era rapidamente ingrossato, dopo l'andata al governo, con l'adesione dei notabili moderati e delle loro clientele. Un dato che confermava come ormai il fascismo avesse sostituito la classe dirigente liberal-moderata nella guida del blocco conservatore.
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