11.6 Roma capitale
La situazione venutasi a creare dopo l'esito deludente della guerra con l'Austria diede slancio ancora una volta all'attività dei gruppi democratici d'opposizione. Mazzini intensificò la propaganda per una rifondazione repubblicana dello Stato. Garibaldi ricominciò a progettare una spedizione a Roma. Rispetto allo sfortunato tentativo di qualche anno prima, il progetto conteneva un elemento nuovo. L'azione dei volontari - che si andarono radunando in Toscana nell'estate del '67 - avrebbe dovuto appoggiarsi su un'insurrezione preparata dagli stessi patrioti romani. Si sperava in tal modo di giustificare il colpo di mano, presentandolo come un atto di volontà popolare, e di evitare così l'intervento francese. Ancora una volta i calcoli si rivelarono errati. A metà ottobre, mentre le prime colonne di volontari penetravano in territorio pontificio, il governo francese inviò un corpo di spedizione nel Lazio. L'insurrezione a Roma fallì per la sorveglianza della polizia e per la scarsa partecipazione popolare. Un piccolo contingente garibaldino che aveva disceso il Tevere in barca per dare man forte ai rivoltosi fu circondato a Villa Glori e decimato dalle truppe pontificie. L'impresa era già praticamente fallita quando, il 3 novembre '67, le truppe francesi da poco sbarcate a Civitavecchia attaccarono presso Mentana il grosso delle forze garibaldine e le sconfissero dopo un duro combattimento. Con l'infelice episodio di Mentana si chiudeva definitivamente la stagione delle imprese risorgimentali. E svaniva, nel contempo, ogni speranza di risolvere la questione romana d'accordo col papa e con la Francia. L'occasione per la conquista di Roma sarebbe stata offerta, di lì a poco, da eventi esterni e imprevedibili, come la guerra francoprussiana e la caduta del Secondo Impero.
Nel settembre 1870, subito dopo la battaglia di Sedan, il governo italiano, non sentendosi più vincolato ai patti sottoscritti con l'imperatore, decise di mandare un corpo di spedizione nel Lazio e di avviare contemporaneamente un negoziato col papa per giungere a una soluzione concordata. Benché fosse completamente isolato in Europa, soprattutto dopo le decisioni del Concilio Vaticano I (
8.12), Pio IX rifiutò ogni accordo, deciso a mostrare al mondo intero di essere stato costretto a cedere alla violenza. Il 20 settembre 1870 le truppe italiane, dopo aver aperto con l'artiglieria una breccia nella cinta muraria che allora circondava Roma e dopo aver sostenuto un breve combattimento con i reparti pontifici, entravano nella città presso
Porta Pia, accolte festosamente dalla popolazione. Pochi giorni dopo, un plebiscito sanzionava a schiacciante maggioranza l'annessione di Roma e del Lazio.
Il trasferimento della capitale da Firenze a Roma fu effettuato nell'estate dell'anno successivo, dopo che lo Stato italiano ebbe regolato con una legge il complesso problema dei rapporti con la Santa Sede. La legge, approvata il 13 maggio 1871, fu detta "delle guarentigie", cioè delle garanzie, in quanto con essa il Regno d'Italia si impegnava unilateralmente a garantire al pontefice le condizioni per il libero svolgimento del suo magistero spirituale, secondo le linee del progetto cavouriano di dieci anni prima. Al papa venivano riconosciute prerogative simili a quelle di un capo di Stato: onori sovrani, facoltà di tenere un corpo di guardie armate, diritto di rappresentanza diplomatica, extraterritorialità per i palazzi del Vaticano e del Laterano, libertà di comunicazioni postali e telegrafiche col resto del mondo. Lo Stato offriva inoltre al papa, che la rifiutò, una dotazione annua pari a quella iscritta nel bilancio dell'ex Stato pontificio per il mantenimento della corte papale.
Nel complesso la legge delle guarentigie attuava largamente il principio della libertà della Chiesa: la quale, liberatasi dal peso del potere temporale, finì col guadagnarne in dinamismo e in capacità di influenza. Non per questo si attenuò l'intransigenza del papa nei confronti del Regno d'Italia. Anzi, l'invito ad astenersi da ogni partecipazione alla vita politica dello Stato, già rivolto dal clero ai cittadini italiani all'indomani dell'unità, si trasformò, nel 1874, in un esplicito divieto pronunciato dalla Curia romana e riassunto nella formula del non expedit ("non giova", "non è opportuno" che i cattolici partecipino alle elezioni politiche). L'acquisto di Roma, nel momento stesso in cui coronava il processo di unificazione nazionale, allargava così le fratture della società italiana e restringeva la già fragile base di consenso su cui si reggevano le istituzioni.
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