24.11 La dittatura a viso aperto
La svolta del 3 gennaio 1925 non lasciava più spazio per gli equivoci e i compromessi: la scelta era tra fascismo e antifascismo, tra dittatura e libertà. Molti politici e uomini di cultura che avevano fin allora mantenuto nei confronti del fascismo un atteggiamento di benevola neutralità sentirono la necessità di prendere posizione. A un "Manifesto degli intellettuali fascisti" diffuso nell'aprile '25 per iniziativa di Giovanni Gentile (divenuto ormai il filosofo ufficiale del fascismo), gli antifascisti risposero con un contro-manifesto redatto da Benedetto Croce, che rivendicava i diritti di libertà ereditati dalla tradizione risorgimentale.
Ma intanto il fascismo portava a compimento l'occupazione dello Stato e chiudeva ogni residuo spazio di libertà politica e sindacale. Molti esponenti antifascisti furono costretti a prendere la via dell'esilio. Giovanni Amendola morì in Francia nell'estate del '26 in seguito ai postumi di un'aggressione squadrista. Per gli stessi motivi era morto pochi mesi prima il giovane liberale di sinistra Piero Gobetti che era stato, con la sua rivista "La Rivoluzione liberale", uno degli animatori del dibattito politico fra il '22 e il '24. Gli organi di stampa dei partiti antifascisti furono messi nell'impossibilità di funzionare. I grandi quotidiani di informazione, che avevano assunto una linea antifascista dopo il delitto Matteotti, furono "fascistizzati" mediante pressioni sui proprietari. Nell'ottobre '25, il sindacalismo libero ricevette un colpo mortale dal patto di Palazzo Vidoni, con cui la Confindustria si impegnava a riconoscere la rappresentanza dei lavoratori ai soli sindacati fascisti.
Eliminate o ridotte al silenzio le voci d'opposizione, il fascismo non si accontentò più di esercitare una dittatura di fatto, ma procedette alla formulazione di nuove leggi destinate a stravolgere definitivamente i connotati dello Stato liberale. Una serie di falliti attentati alla vita di Mussolini (ben quattro in un solo anno) servì a creare il clima adatto al varo della nuova legislazione, che ebbe il suo maggior artefice nel ministro della Giustizia Alfredo Rocco, proveniente dalla file dell'Associazione nazionalista (che si era fusa col Pnf nel febbraio 1923). La prima importante legge costituzionale del regime fu quella del dicembre '25 che rafforzava i poteri del capo del governo sia rispetto agli altri ministri sia rispetto al Parlamento. Nell'aprile '26, una legge sindacale proibì lo sciopero e stabilì che solo i sindacati "legalmente riconosciuti" (cioè quelli fascisti) avevano il diritto di stipulare contratti collettivi. Infine, nel novembre '26, all'indomani dell'ultimo attentato a Mussolini, una vera e propria raffica di provvedimenti repressivi cancellò le ultime tracce di vita democratica. Furono sciolti tutti i partiti antifascisti e soppresse tutte le pubblicazioni contrarie al regime. Furono dichiarati decaduti dal mandato i deputati aventiniani. Fu reintrodotta la pena di morte per i colpevoli di reati "contro la sicurezza dello Stato". Fu istituito, per giudicare questi reati, un Tribunale speciale per la difesa dello Stato composto non da giudici ordinari, ma da ufficiali delle forze armate e della Milizia.
La costruzione del regime sarebbe stata completata successivamente: con la legge elettorale del 1928, che introduceva il sistema della lista unica (con tanti candidati quanti erano i seggi da occupare) e lasciava agli elettori solo la scelta se approvarla o respingerla in blocco; e con la "costituzionalizzazione" del Gran consiglio che, sempre nel '28, diventò un organo dello Stato, dotato di prerogative molto importanti, fra cui quella di preparare le liste elettorali. Ma già le leggi fascistissime del '26 avevano messo fine alla parabola dello Stato liberale nato con l'unità d'Italia e avevano dato vita a un nuovo regime: un regime a partito unico, in cui la separazione dei poteri era stata abolita e tutte le decisioni importanti erano concentrate nelle mani di un solo uomo. Un regime che si differenziava dagli antichi sistemi assolutistici perché non si accontentava di reprimere e controllare le masse, ma pretendeva di inquadrarle in proprie organizzazioni.
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