27.2 Il regime e il paese
Se osserviamo l'Italia del ventennio fascista quale ci appare attraverso l'abbondante materiale propagandistico prodotto durante il regime (cinegiornali d'attualità, foto ufficiali, stampa illustrata, ecc.), vediamo emergere con prepotente evidenza l'immagine di un paese largamente fascistizzato. I ritratti di Mussolini esposti nelle scuole e negli uffici o innalzati per le strade in giganteschi cartelli. Gli edifici pubblici e i monumenti, le copertine dei libri e le cartoline ornati dall'emblema del fascio littorio, insegna del potere dei magistrati di Roma antica, eletto a simbolo del regime. I muri istoriati da scritte guerriere (quelle di cui ancor oggi ci può capitare di scorgere le tracce scolorite). Le grandi folle mobilitate in occasione delle ricorrenze fasciste (come l'anniversario della marcia su Roma) o dei discorsi del duce trasmessi dalla radio in tutti gli angoli del paese. Gli scolari che sfilavano in formazione militare, vestiti in camicia nera e armati di fucili di legno. I loro padri, anch'essi in divisa fascista, che si riunivano nei giorni festivi agli ordini dei fasci locali per celebrare i riti del regime. Gli attempati gerarchi che si esibivano negli stadi in pericolosi esercizi ginnici.
Queste e altre immagini ci sono state tante volte riproposte, attraverso film, documentari e rievocazioni d'ogni genere, da diventare quasi convenzionali. Il problema è vedere se esse rispecchiavano la realtà dell'Italia di allora. Il paese era davvero cambiato rispetto al periodo precedente, così com'era cambiata la sua immagine "ufficiale"? Per affrontare questo problema è necessario dare uno sguardo alle condizioni del "paese reale", quali risultano dai dati statistici.
Questi dati ci dicono in primo luogo che, anche durante il periodo fascista, l'Italia continuò a muoversi e a svilupparsi secondo le linee di tendenza comuni a tutti i paesi dell'Europa occidentale, benché con un ritmo più lento di quello tenuto nel ventennio precedente. La popolazione, che era di 38 milioni nel 1921, passò a 44 nel '39. Nello stesso periodo si accentuò l'urbanizzazione e la percentuale dei residenti in comuni con più di 100.000 abitanti salì dal 13 al 18%; la quota degli addetti all'agricoltura sul totale della popolazione attiva calò dal 58 al 51%, mentre quella degli occupati nell'industria passò dal 23 al 26,5% e quella degli addetti al terziario dal 18 al 22%. Tradotto in cifre assolute ciò significa che il numero dei lavoratori dell'industria era aumentato di circa un milione di unità e di quasi altrettanto era cresciuto quello degli occupati nel commercio, nei servizi e nella pubblica amministrazione (dove vi fu l'incremento più alto).
Nonostante questi segni di sviluppo, alla vigilia della seconda guerra mondiale l'Italia era ancora un paese fortemente arretrato e il suo distacco dalle grandi potenze europee si era accentuato piuttosto che colmarsi. Alla fine degli anni '30, il reddito medio di un italiano era poco più della metà di quello di un francese, un terzo di quello di un inglese (e un quarto di quello di uno statunitense). Nonostante spendesse più della metà del suo reddito in consumi alimentari, l'italiano medio si nutriva essenzialmente di farinacei, mangiava carne e beveva latte in quantità tre volte inferiore a quella di un inglese o di un americano, considerava generi di lusso il caffè, il tè e lo zucchero. La spesa per il vestiario era circa la metà di quella di un francese o di un inglese. Il divario era ancora più consistente nel campo dei beni di consumo durevoli. Nel '38 c'era in Italia un'automobile ogni 100 abitanti (mentre il rapporto era di 1 a 20 in Inghilterra e in Francia), un telefono ogni 70 abitanti (1 a 13 in Inghilterra, 1 a 27 in Francia), un apparecchio radio ogni 40 (1 a 6 in Inghilterra, 1 a 8 in Francia).
L'arretratezza economica e civile della società italiana fu per certi aspetti funzionale al regime e all'ideologia fascista, o quanto meno ne favorì le tendenze conservatrici e tradizionaliste. Il fascismo, come il nazismo, predicò il "ritorno alla campagna", esaltò la bellezza e la sanità della vita campestre, lanciò a più riprese la parola d'ordine della ruralizzazione e tentò di scoraggiare, senza peraltro riuscirvi, l'afflusso dei lavoratori verso i centri urbani. Il fascismo inoltre, d'accordo in questo con la Chiesa, difese ed esaltò la funzione del matrimonio e della famiglia, come garanzia di stabilità e come base per lo sviluppo demografico. Ispirandosi all'anacronistica dottrina che identificava la potenza con la forza del numero, il fascismo cercò di incoraggiare con ogni mezzo l'incremento della popolazione: furono aumentati gli assegni familiari dei lavoratori, furono favorite le assunzioni dei padri di famiglia, furono istituiti premi per le coppie più prolifiche, fu addirittura imposta, nel '27, una tassa sui celibi. In coerenza con questa linea, il regime ostacolò il lavoro delle donne (anche in questo caso con scarso successo) e, più in generale, si oppose al processo di emancipazione femminile. Anche le donne ebbero, durante il fascismo, le loro proprie strutture organizzative: quella dei Fasci femminili, quella delle piccole italiane e delle giovani italiane (dipendenti dall'Opera nazionale Balilla) e, più importante di tutte, quella delle massaie rurali. Ma si trattava di organismi poco vitali (pur nella loro indubbia novità), la cui funzione principale stava nel valorizzare le virtù domestiche della donna, nel ribadirne l'immagine tradizionale di "angelo del focolare" diffusa attraverso la stampa, la letteratura fascista e i testi per la scuola.
Il fascismo non era però solo un regime conservatore e immobilista. Se da un lato voleva mantenere in vita strutture sociali e tradizioni del passato, dall'altro era in qualche modo proiettato verso il futuro, verso la creazione dell'"uomo nuovo", verso un sistema totalitario moderno, in cui l'intera popolazione fosse inquadrata nelle strutture del regime, sensibile agli appelli del capo e pronta a combattere per la grandezza nazionale. Per la realizzazione di questa utopia il ritardo economico e culturale del paese rappresentava un ostacolo insormontabile. Non era facile far giungere il messaggio fascista nei piccoli paesi sperduti dove non arrivavano le strade carrozzabili, non c'erano scuole e non si sapeva cosa fossero la radio e il cinema.
Ma era soprattutto la scarsezza delle risorse a disposizione della collettività che impediva al fascismo di praticare una politica economica e salariale tale da permettergli di far breccia fra le classi lavoratrici. Le generiche enunciazioni contenute nella Carta del lavoro (un documento varato con grande solennità nel 1927, in cui si parlava fra l'altro di "uguaglianza giuridica" fra imprenditori e prestatori d'opera e di "solidarietà fra i vari settori della produzione") non erano certo sufficienti a ripagare i lavoratori della perdita di qualsiasi autonomia organizzativa e capacità contrattuale. I vantaggi dell'organizzazione dopolavoristica e i miglioramenti nel campo previdenziale non bastavano a compensare il calo quasi costante dei salari reali - quelli dell'industria erano, nel '39, inferiori di circa il 20% a quelli del '21 - e la conseguente compressione dei consumi alimentari che, già bassi in partenza, andarono lentamente contraendosi negli anni '30.
I maggiori successi, in termini di partecipazione e di consenso, il regime li ottenne non a caso presso la media e piccola borghesia. I ceti medi infatti, non solo furono complessivamente favoriti dalle scelte economiche del regime; non solo si videro aprire nuovi canali di ascesa sociale dalla moltiplicazione degli apparati burocratici (nello Stato, nel partito, negli enti di nuova istituzione); ma erano anche i più sensibili ai valori esaltati dal fascismo (la nazione, la gerarchia, l'ordine sociale), i più disposti a recepirne i messaggi e a farne proprie le parole d'ordine.
Per dare una risposta sintetica agli interrogativi circa il reale grado di fascistizzazione del paese, si può quindi concludere che questo fenomeno fu ampio, ma riguardò essenzialmente gli strati intermedi della società, toccando solo superficialmente le classi popolari e l'alta borghesia; che il regime riuscì a cambiare, in maniera anche vistosa, i comportamenti pubblici e le forme di partecipazione collettiva, ma non a trasformare nel profondo schemi mentali e strutture sociali.
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