35.4 La polveriera del Medio Oriente
Dopo la crisi di Suez del '56, il Medio Oriente continuò a rappresentare non solo un pericoloso focolaio di tensione locale, a causa della permanente ostilità fra Israele e i paesi arabi (che rifiutavano di riconoscere lo Stato ebraico), ma anche un terreno di scontro fra l'Unione Sovietica, divenuta grande protettrice dell'Egitto, e gli Stati Uniti, che sostenevano con decisione Israele.
Nel 1967 il presidente egiziano Nasser chiese il ritiro delle forze-cuscinetto dell'Onu che presidiavano il confine del Sinai, proclamò la chiusura del golfo di Aqaba, vitale per gli approvvigionamenti israeliani, e strinse un patto militare con la Giordania. Gli israeliani risposero sferrando, il 5 giugno, un attacco preventivo contro Egitto, Giordania e Siria. La guerra durò appena sei giorni, ma il suo esito fu deciso fin dalle prime ore, con la distruzione al suolo dell'intera aviazione egiziana, e fu disastroso per gli arabi. L'Egitto perse la penisola del Sinai, la Giordania tutti i territori della riva occidentale del Giordano, inclusa la parte orientale di Gerusalemme (la città venne successivamente annessa dallo Stato ebraico e proclamata sua capitale), la Siria le alture del Golan. Gli arabi contarono più di 30.000 morti, gli israeliani poche centinaia. Altri 400.000 palestinesi ripararono in Giordania e negli altri paesi arabi, dove andarono a ingrossare le file dei rifugiati nei campi profughi.
La disfatta della "guerra dei sei giorni" ebbe per gli arabi conseguenze di vasta portata. Segnò il declino di Nasser e della sua politica di oltranzismo panarabo; indusse a un atteggiamento più prudente la Giordania e gli altri Stati moderati della zona; determinò il distacco dei movimenti di resistenza palestinese, riuniti nell'Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina), dalla tutela dei regimi arabi. Guidata, a partire dal 1969, da
Yasir Arafat, già leader del gruppo principale, quello di Al Fatah, l'Olp pose le sue basi in Giordania, creandovi una specie di Stato nello Stato. Il re di Giordania Hussein, esposto alle rappresaglie israeliane a causa degli attentati terroristici dei feddayn (combattenti) palestinesi, reagì con una sanguinosa prova di forza. Nel settembre 1970 (il cosiddetto settembre nero) mobilitò le sue truppe contro i feddayn e i profughi palestinesi, che - dopo aver avuto migliaia di morti - furono costretti a riparare nel vicino Libano (un piccolo Stato pluriconfessionale rimasto fin allora ai margini del conflitto arabo-israeliano). Da allora l'Olp avrebbe esteso la lotta terroristica sul piano internazionale, con una serie di dirottamenti aerei e di attentati clamorosi, come quello attuato a Monaco contro gli atleti israeliani, durante le Olimpiadi del 1972.
Nel 1970 Nasser morì. Il suo successore,
Anwar Sadat, procedette a una cauta ma decisa revisione della politica egiziana. Deciso a recuperare il Sinai, preparò accuratamente il confronto con Israele. Il 6 ottobre 1973, giorno della festa ebraica dello Yom Kippur, le truppe egiziane attaccarono di sorpresa le linee israeliane, dilagando nel Sinai. Ma Israele riuscì a capovolgere le sorti del conflitto, grazie anche ai massicci aiuti americani, e a respingere gli attaccanti. Al momento del cessate il fuoco, la "guerra del Kippur" aveva ottenuto scarsi risultati sul piano territoriale. Ne ebbe invece sul piano politico e psicologico. Da un lato fu scosso il mito dell'invincibilità israeliana e gli egiziani poterono sostenere di aver lavato l'onta del '67. Dall'altro la chiusura del Canale di Suez e il blocco petrolifero decretato dagli Stati arabi (fra i quali si annoveravano alcuni fra i maggiori produttori mondiali, come l'Arabia Saudita, l'Iraq, il Kuwait) contro i paesi occidentali amici di Israele diede alla crisi una dimensione globale e rese gli Stati Uniti più sensibili al dialogo con gli arabi.
Sadat, a sua volta, si era convinto della necessità di trovare una soluzione politica al conflitto con Israele (unico modo per liberare il paese da un perenne stato di guerra) e dunque di avvicinarsi agli Stati Uniti. Nel 1974-75, con un clamoroso rovesciamento di alleanze, espulse i tecnici sovietici dall'Egitto, congelò i rapporti con l'Urss e impresse alla sua politica estera un segno filo-occidentale. Nel novembre 1977 il presidente egiziano compì un clamoroso viaggio a Gerusalemme e formulò personalmente, in un discorso al Parlamento israeliano, la sua offerta di pace. Si giunse quindi, con la mediazione del presidente americano Carter, agli accordi di Camp David del settembre 1978 fra Sadat e il primo ministro israeliano Begin. L'Egitto ottenne la restituzione del Sinai e stipulò con Israele un trattato di pace (marzo '79). Una pace che ha rappresentato un evento storico ed è sopravvissuta anche alla morte del presidente Sadat, ucciso nell'81 in un attentato di integralisti islamici; ma non è bastata a mettere in moto un generale processo di pacificazione nell'area medio-orientale.
Gli accordi di Camp David prevedevano ulteriori negoziati per un regolamento globale nella regione e per la soluzione del problema palestinese. Ma questi negoziati non furono nemmeno avviati. L'ostacolo principale è venuto in un primo tempo dagli Stati arabi e dall'Olp, che hanno denunciato il "tradimento" dell'Egitto e rifiutato ogni trattativa col "nemico storico". Successivamente, a partire dalla metà degli anni '80, gli Stati arabi "moderati" (in particolare Giordania e Arabia Saudita) e la stessa dirigenza dell'Olp hanno assunto una posizione più morbida e, sfidando la condanna del cosiddetto "fronte del rifiuto" (Siria, Libia e l'ala radicale delle organizzazioni palestinesi), si sono detti disposti a trattare con Israele e a riconoscerne l'esistenza in cambio del suo ritiro dai territori occupati (Cisgiordania e striscia di Gaza), dove dovrebbe sorgere uno Stato palestinese. A questo punto, però, sono stati i dirigenti dello Stato ebraico - che aveva frattanto avviato una parziale "colonizzazione" dei territori occupati - a rifiutare la trattativa con l'Olp di Arafat, considerata un'organizzazione terroristica, e a opporsi alla creazione di uno Stato palestinese, visto come una minaccia permanente all'esistenza stessa di Israele.
La tensione si è ulteriormente accresciuta quando, a partire dalla fine dell'87, i palestinesi dei territori occupati hanno dato vita a una lunga e diffusa rivolta (detta intifada, in arabo "risveglio") contro gli occupanti, che hanno reagito con una dura repressione. L'intensità della protesta (nata spontaneamente, ma sostenuta dagli uomini dell'Olp) e il suo indiscutibile carattere popolare hanno giovato alla causa del movimento palestinese, assai più di quanto non avessero fatto a suo tempo le azioni terroristiche, e hanno reso più difficile la posizione dei governi israeliani, criticati per la loro intransigenza dai loro stessi alleati, compresi gli Stati Uniti.
I riflessi dell'irrisolto nodo palestinese si sono fatti sentire pesantemente in Libano, dove l'Olp aveva trasferito le sue basi dopo il "settembre nero" del 1970. Il trapianto delle organizzazioni di guerriglia non tardò a far saltare il fragile equilibrio su cui si reggeva la convivenza fra le diverse comunità libanesi (cristiani, musulmani sunniti, sciiti, drusi). Dal 1975 il Libano entrava in uno stato di cronica e sanguinosa guerra civile, in cui tutte le fazioni si fronteggiavano con le loro milizie armate e si combattevano a colpi di attentati e di massacri ai danni soprattutto della popolazione civile. La situazione si è ulteriormente aggravata dopo che l'esercito israeliano, nell'estate 1982, ha invaso il paese spingendosi fino a Beirut per cacciarne, dopo sanguinosi combattimenti, le basi dell'Olp. Il successivo invio a Beirut di una forza multinazionale di pace da parte di Stati Uniti, Francia, Italia e Gran Bretagna ha consentito l'evacuazione dei combattenti dell'Olp (il cui centro dirigente si è trasferito a Tunisi), ma non è servito a riportare la calma nel paese. La forza è stata ritirata nel 1984, dopo una serie di attentati contro i contingenti americano e francese. E il Libano è rimasto da allora lacerato da lotte intestine, che hanno fornito alla vicina Siria il pretesto per intervenire militarmente nel paese e imporvi una sorta di protettorato.
Un ulteriore fattore di tensione per l'intera area medio-orientale è venuto negli ultimi anni dalla crescita dei movimenti integralisti islamici, già presenti da tempo in tutta la regione e ora rilanciati dalle vicende della rivoluzione in Iran. Paese vasto e popoloso, ricco di risorse naturali (soprattutto di petrolio), collocato in una posizione strategica per il controllo delle rotte petrolifere, governato con metodi dispotici dallo scià (imperatore) Rheza Palhavi, l'Iran costituiva dalla fine della seconda guerra mondiale il principale pilastro della presenza americana nell'area del Golfo Persico. Rheza Palhavi aveva tentato una politica di modernizzazione accelerata, e per molti aspetti traumatica, che mirava a trasformare il paese in una grande potenza militare ma che non si tradusse in significativi progressi nella condizione di vita delle masse. Questa politica suscitò una crescente opposizione sia da parte dei gruppi di sinistra, sia da parte del clero islamico tradizionalista che assunse, dal 1978, la guida di un vasto movimento di protesta popolare. Lo scià tentò di fermare la rivolta prima con sanguinose repressioni, poi chiamando al governo esponenti dell'opposizione moderata. Ma, nel gennaio '79, abbandonato anche dagli Stati Uniti, dovette lasciare il paese. In Iran si instaurò così una Repubblica islamica di stampo teocratico, ispirata a un vago riformismo sociale basato sui dettami del Corano e guidata dall'ayatollah
Khomeini, massima autorità dei musulmani sciiti, che aveva capeggiato dall'esilio di Parigi l'opposizione religiosa al regime dello scià.
Violentemente antioccidentale e antiamericano, il nuovo regime entrò subito in contrasto con gli Stati Uniti, accusati di aver sostenuto lo scià e di avergli offerto ospitalità dopo la sua fuga. Per oltre un anno (novembre '79-gennaio '81), il personale dell'ambasciata Usa a Teheran fu tenuto prigioniero da un gruppo di militanti islamici che agivano col pieno appoggio delle autorità. Gli ostaggi furono liberati solo dopo una lunga trattativa e dopo il fallimento, nell'aprile '80, di una azione di forza ordinata dal presidente Carter.
Isolato internazionalmente e gravemente dissestato nell'economia, l'Iran è stato attaccato, nel settembre 1980, dal vicino Iraq, che ha cercato di profittare della situazione per impadronirsi di alcuni territori da tempo contesi fra i due paesi. La guerra - che ha rappresentato un gravissimo fattore di tensione internazionale in un'area di eccezionale importanza strategica (per il golfo Persico passa il 30% della produzione petrolifera mondiale) - si è protratta con fasi alterne per ben otto anni e si è risolta in una spaventosa quanto inutile carneficina: il cessate il fuoco stabilito, grazie alla mediazione dell'Onu, nel luglio '88 ha infatti trovato i contendenti sulle stesse posizioni dell'inizio del conflitto. La fine della guerra e la morte, l'anno successivo, dell'ayatollah Khomeini hanno aperto qualche spazio alle componenti meno estremiste del regime iraniano, che negli anni precedenti aveva contribuito non poco - anche attraverso le azioni terroristiche dei gruppi radicali sciiti attivi soprattutto in Libano - all'instabilità dell'intera area mediorientale.
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