20.4 La questione meridionale
Ancora una volta, dunque, gli effetti del progresso economico non si distribuirono uniformemente in tutto il paese, ma si fecero sentire soprattutto nelle regioni già più sviluppate, in particolare nel cosiddetto triangolo industriale che aveva come vertici Milano, Torino e Genova. E il divario fra Nord e Sud si venne perciò accentuando, sia pure nel quadro di una crescita generalizzata. Secondo i dati di un'inchiesta del 1903, sul totale dei lavoratori dell'industria, il 57% era concentrato nelle regioni settentrionali mentre solo il 25% viveva nel Mezzogiorno (che aveva una popolazione pari al 37% di quella nazionale), dove erano assenti, salvo rare eccezioni, le aziende di grandi dimensioni e a tecnologia avanzata.
Anche i discreti progressi che l'agricoltura italiana venne realizzando a partire dagli ultimi anni dell'800 finirono col concentrarsi nel Nord, soprattutto nelle aziende capitalistiche della Valle Padana, che seppero profittare della congiuntura favorevole e dell'elevata protezione doganale sui cereali per migliorare le tecniche di coltivazione. Scarsi furono invece i progressi dell'agricoltura meridionale, sfavorita dalle condizioni climatiche e idrologiche e dalla naturale povertà dei terreni di montagna, ma anche dalla permanenza di rapporti sociali consolidati e di mentalità diffuse che ostacolavano il mutamento economico e sociale. "L'agricoltura meridionale - ha scritto lo storico Alberto Aquarone - era sostanzialmente fondata [...] non tanto sulla azienda agraria, ossia [...] sulla razionale organizzazione produttiva di una determinata estensione di terra ordinata e trasformata grazie a un costante impegno di capitali, di energie imprenditoriali e di innovazioni tecniche, ma sullo sfruttamento del lavoro individuale, nell'ambito di un sistema che aveva la sua vera cellula nell'uomo singolo, contadino senza terra o piccolo proprietario che fosse".
Da questa situazione, ancor più che dal mancato sviluppo industriale, derivavano in buona parte i mali storici della società meridionale: l'analfabetismo diffuso (nel 1911 il tasso era ancora del 60% nel Mezzogiorno, contro il 15% delle regioni del Nord), la disgregazione sociale, l'assenza di una classe dirigente moderna, la subordinazione della piccola e media borghesia agli interessi della grande proprietà terriera, il carattere clientelare e personalistico della lotta politica. Tale carattere era accentuato dal fatto che, per molti giovani, la conquista di un impiego pubblico - raggiungibile grazie ai favori del notabile o del deputato locale - costituiva l'unica alternativa alla disoccupazione o all'emigrazione: fu in questo periodo che la pubblica amministrazione italiana, nata piemontese e "nordista", cominciò a "meridionalizzarsi". Tutti questi erano mali antichi (o antiche erano le radici che li alimentavano), ma risaltavano maggiormente nel momento in cui contrastavano col generale sviluppo del paese e ostacolavano gravemente il cammino verso forme di più avanzata organizzazione politica e sociale.
Torna all'indice