28.4 Nazionalisti e comunisti in Cina
Gli eventi che sconvolsero il mondo occidentale nella prima metà del '900 (la prima guerra mondiale e la rivoluzione russa, l'ascesa dei fascismi e la seconda guerra mondiale) si ripercossero in modo decisivo anche su Cina e Giappone, entrambi coinvolti in profondi processi di trasformazione ed entrambi destinati a giocare un ruolo di primo piano nella seconda metà del secolo. Ma, mentre il Giappone negli anni fra i due conflitti mondiali confermò e rafforzò il suo ruolo di potenza imperialista, economicamente forte e militarmente aggressiva, la Cina fu lacerata e paralizzata da una lunga e sanguinosa guerra civile.
Il regime autoritario imposto dal generale Yuan Shi-kai nel 1913, due anni dopo la proclamazione della Repubblica (
19.3), non riuscì ad assicurare al paese tranquillità e unità. Al contrario, venuto meno il collante costituito dal pur screditato potere imperiale, la Cina precipitò in una situazione di semianarchia. Il governo - soprattutto dopo la morte di Yuan Shi-kai nel 1916 - non aveva forza sufficiente per imporre la sua autorità alle province (dove i governatori militari, i cosiddetti signori della guerra, si comportavano come capi feudali, arruolando milizie e imponendo tributi); né per opporsi alle mire egemoniche del Giappone che, entrato in guerra contro la Germania nel 1915, mirava a sostituirsi alle potenze europee nel controllo delle zone più ricche della Cina. La decisione presa dal governo nel '17 di far intervenire anche la Cina nel conflitto mondiale a fianco dell'Intesa (un intervento che ebbe peraltro un valore poco più che simbolico) non servì a mutare la situazione. Alla conferenza della pace - cui pure partecipò come Stato vincitore - la Cina fu anzi umiliata dalle grandi potenze occidentali che riconobbero al Giappone il diritto di subentrare alla Germania sconfitta nel controllo economico della regione dello Shantung.
Questa ennesima umiliazione - che significava per la Cina la conferma di una condizione di sovranità limitata - ebbe l'effetto di risvegliare l'agitazione nazionalista, che si raccolse ancora una volta attorno al Kuomintang e al suo leader Sun Yat-sen, tornato nel frattempo dall'esilio, ed esplose, nel maggio 1919, in una serie di dimostrazioni di protesta iniziate nelle università e poi propagatesi in tutte le grandi città.
Alla base di queste agitazioni c'era l'alleanza, già operante nella rivoluzione del 1911, fra la gioventù intellettuale, la nascente borghesia industriale e commerciale insofferente dell'invadenza straniera e quei nuclei di classe operaia che si erano formati nelle regioni più soggette alla penetrazione del capitale straniero. Comune a queste forze era la lotta contro l'imperialismo delle grandi potenze; e comune era anche l'avversione all'inetto governo centrale e ai "signori della guerra", l'uno e gli altri espressione della vecchia classe dirigente di estrazione terriera che dominava nelle campagne. La lotta intrapresa contro il governo da Sun Yat-sen, che nel '21 formò un proprio governo a Canton, ebbe così l'appoggio del Partito comunista cinese, fondato, sempre nel '21, da un gruppo di intellettuali (fra i quali il giovane
Mao Tse-tung), per lo più passati attraverso l'esperienza nazionalista e successivamente influenzati dall'esempio della rivoluzione russa. Anche l'Unione Sovietica - che allora si proponeva come un modello per i paesi in lotta contro l'imperialismo occidentale - sostenne attivamente la causa di Sun Yat-sen (in omaggio alla strategia che prescriveva l'appoggio del movimento operaio alle borghesie nazionali impegnate nei movimenti di liberazione dal colonialismo), inviò aiuti economici e militari al governo di Canton e indusse addirittura il Partito comunista ad aderire in blocco al Kuomintang (conservando però la sua struttura organizzativa).
L'alleanza fra nazionalisti e comunisti non sopravvisse però alla morte, nel 1925, di Sun Yat-sen. Il suo successore
Chang Kai-shek, esponente dell'ala moderata del Kuomintang, era molto meno aperto alle istanze di riforma sociale e molto più diffidente nei riguardi dei comunisti, i cui progressi suscitavano crescente preoccupazione nei ceti borghesi. I contrasti cominciarono a manifestarsi nel '26, quando Chang Kai-shek, alla testa di un nuovo esercito, iniziò la campagna per riunificare il paese e scacciare il governo "legale" di Pechino (ancora riconosciuto dalle potenze occidentali); ed esplosero l'anno successivo, quando questa campagna aveva già conseguito una serie di decisivi successi. Nell'aprile 1927 a Shangai, massimo centro industriale cinese e roccaforte dei comunisti, le milizie operaie che da sole avevano liberato la città e non intendevano deporre le armi furono affrontate e sconfitte dalle truppe di Chang Kai-shek. In dicembre un'insurrezione operaia a Canton fu repressa in un bagno di sangue. Il Partito comunista fu messo fuori legge e molti dirigenti furono incarcerati.
Dopo aver stroncato l'opposizione operaia e aver condotto a termine vittoriosamente la lotta contro il governo di Pechino (la capitale fu conquistata nel giugno '28), Chang Kai-shek cercò di riorganizzare l'economia e l'apparato statale secondo modelli "occidentalisti" (ma fortemente venati di autoritarismo). Il suo progetto però si scontrava contro l'obiettiva difficoltà di controllare un paese immenso e profondamente diviso. Da un lato c'erano i comunisti che, sconfitti nelle città, cominciarono a organizzare "basi rosse" nelle campagne, rimaste fin allora estranee al processo rivoluzionario. Dall'altro sopravvivevano in alcune province le velleità autonomiste dei "signori della guerra", aiutati dal Giappone che non aveva rinunciato ai suoi progetti di espansione ed era ostile al consolidamento di un forte potere statale in Cina. Nel 1931, traendo pretesto da un incidente di frontiera, i giapponesi invasero la Manciuria, una vasta regione ai confini con la Siberia, da tempo oggetto delle loro mire, e vi crearono uno Stato-fantoccio, il Manchu-kuo, che avrebbe dovuto servire da base per un'ulteriore espansione sul continente.
L'inerzia manifestata nell'occasione dal governo di Chang e lo scarso appoggio ad esso fornito dalle potenze occidentali (la Società delle nazioni si limitò a una platonica condanna dell'aggressione) diedero nuovo spazio all'azione dei comunisti, che sempre più potevano presentarsi come i soli autentici difensori degli interessi nazionali. Decisiva per le fortune del partito si rivelava frattanto la strategia contadina impostata soprattutto da Mao Tse-tung: una strategia che individuava nelle masse rurali il vero protagonista del processo rivoluzionario, in un paese arretrato come la Cina, e rovesciava la teoria marxista ortodossa in modo ancor più radicale di quanto non avesse fatto a suo tempo Lenin. All'inizio degli anni '30, i comunisti fecero numerosi proseliti fra i contadini (delusi per la mancata attuazione della promessa riforma agraria da parte del governo di Chang), allargarono le loro basi in molte zone agricole (dove i latifondi furono espropriati e le terre distribuite fra i contadini) e fondarono addirittura una "Repubblica sovietica cinese", con centro nella regione del Kiang-si.
Costretto a combattere su due fronti, Chang Kai-shek decise di dare la priorità alla lotta contro i comunisti - anche a costo di trascurare la minaccia giapponese - e lanciò, fra il '31 e il '34, una serie di sanguinose campagne militari contro le zone da loro controllate. Investiti dall'offensiva - e scarsamente appoggiati dall'Urss, che non condivideva la strategia maoista e tendeva invece a mantenere rapporti con la Repubblica "borghese" di Chang - i comunisti dovettero abbandonare molte delle loro posizioni. Nell'ottobre del '34 circa 100.000 comunisti accerchiati nello Hunan, nel Sud del paese, decisero di evacuare quella zona e di trasferirsi nella regione settentrionale dello Shanxi, giudicata meglio difendibile. Ne giunsero a destinazione meno di 10.000, dopo una marcia durata un anno e lunga 10.000 chilometri attraverso l'interno della Cina. Con quella che sarebbe poi passata alla storia e all'epopea rivoluzionaria come la lunga marcia Mao Tse-tung, ormai leader incontrastato del partito, riuscì comunque a salvare il nucleo dirigente comunista e a ricostituire la sua "Repubblica sovietica" proprio nelle zone in cui più forte era la minaccia giapponese.
Quando, nel '36, Chang Kai-shek decise di lanciare una nuova campagna di annientamento contro i comunisti, dovette scontrarsi con l'aperta dissidenza di una parte dell'esercito, che chiedeva la fine della guerra civile e l'unione di tutte le forze nazionali contro l'aggressione giapponese. Si giunse così, all'inizio del '37, a un accordo stipulato sotto gli auspici dell'Urss fra comunisti e nazionalisti, con cui le due parti si impegnavano a costituire un fronte unito (una specie di Fronte popolare in edizione cinese) contro l'imperialismo straniero. Ma nell'estate di quello stesso 1937, prima che il difficile accordo potesse dare i suoi frutti, i giapponesi sferrarono un attacco in forze contro l'intero territorio cinese. La resistenza fu questa volta accanita, sia da parte dell'esercito regolare sia da parte dei guerriglieri-contadini organizzati dai comunisti. Ma non bastò a impedire che i giapponesi proseguissero la loro sistematica avanzata. Nell'estate del '39, dopo due anni di guerra, il Giappone controllava buona parte della zona costiera, tutto il Nord-est industrializzato e quasi tutte le città più importanti (fra cui Nanchino, dove fu installato un governo collaborazionista). Ma a questo punto le vicende della guerra cino-giapponese cominciarono a intrecciarsi con quelle del secondo conflitto mondiale che stava allora scoppiando in Europa.
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