35.12 La guerra del Golfo
Il nuovo clima internazionale instauratosi alla fine degli anni '80 con l'avvio della distensione Usa-Urss e poi col collasso dei sistemi comunisti, se ha allontanato dal mondo lo spettro di una guerra generale, non ha certo spento i numerosi focolai di crisi esistenti nelle aree calde del pianeta. Si è anzi temuto che la fine dell'equilibrio bipolare, allentando il controllo delle superpotenze sulle rispettive sfere di influenza, potesse favorire lo scoppio dei conflitti locali e che il venir meno - per il fallimento di uno dei due contendenti - del confronto fra "mondo comunista" e "mondo libero" potesse lasciare spazio all'emergere di altri e non meno temibili scontri globali: come quello fra Nord ricco e Sud povero o quello fra un Occidente riunificato nel segno dell'economia di mercato e un mondo islamico sempre più animato da un aggressivo spirito di rivalsa. Questi timori sono stati drammaticamente confermati dall'esplodere di una gravissima crisi internazionale, scoppiata nel momento culminante del processo di distensione e originata ancora una volta dalle turbolenze dell'area mediorientale.
Nell'agosto del '90, il dittatore dell'Iraq
Saddam Hussein già protagonista della guerra di aggressione contro l'Iran (
35.4) - e per questo a lungo armato e rifornito sia dall'Urss sia da molti paesi occidentali, compresa l'Italia - ha invaso il piccolo e confinante Emirato del Kuwait, affacciato sul Golfo Persico, uno dei maggiori produttori mondiali di petrolio, tradizionalmente filo-occidentale, e ne ha proclamato l'annessione alla Repubblica irachena. L'invasione del Kuwait - che traeva pretesto da antiche rivendicazioni territoriali e mirava in realtà al controllo dell'intera penisola arabica (ossia del 40% delle risorse petrolifere mondiali) - è stata subito condannata dalle Nazioni Unite, che, con voto pressoché unanime, hanno decretato l'embargo nei confronti dell'aggressore. Contemporaneamente, gli Stati Uniti inviavano in Arabia Saudita un corpo di spedizione che sarebbe giunto a contare oltre 400.000 uomini: e ciò al doppio scopo di difendere gli Stati arabi minacciati e di premere su Saddam Hussein per costringerlo al ritiro. Alla spedizione si univano anche alcuni Stati europei (Gran Bretagna, Francia e, in misura assai più limitata, l'Italia) e una parte dei paesi arabi fra cui Egitto e Siria (mentre l'Iran manteneva una prudente neutralità). Il dittatore iracheno reagiva trattenendo in ostaggio migliaia di cittadini occidentali residenti in Iraq, respingendo gli appelli della comunità internazionale e i tentativi di mediazione e cercando di stabilire un collegamento fra l'occupazione del Kuwait e il problema dei territori palestinesi occupati da Israele: il che gli permetteva di presentarsi come il vendicatore delle masse arabe oppresse e come il banditore di una guerra santa contro l'Occidente. L'appello, pur venendo da un paese in passato tutt'altro che sensibile ai richiami del fondamentalismo religioso, trovava notevole eco fra le masse di molti paesi arabi, e in particolare fra i palestinesi dell'Olp (il cui leader, Arafat, si schierava a fianco dell'Iraq).
Alla fine di novembre, dopo che Saddam aveva deciso di rilasciare gli ostaggi occidentali, il Consiglio di sicurezza dell'Onu approvava a stragrande maggioranza (e col voto favorevole dell'Urss) una risoluzione che imponeva all'Iraq di ritirarsi dal Kuwait entro il 15 gennaio, autorizzando in caso contrario l'impiego della forza. Nella notte fra il 16 e il 17 gennaio 1991, a ventiquattr'ore dalla scadenza dell'ultimatum, la forza multinazionale scatenava un violento attacco aereo contro obiettivi militari in Iraq e nel Kuwait occupato. Saddam rispondeva lanciando missili con testate esplosive sulle città dell'Arabia Saudita e di Israele (che pure era rimasto estraneo al conflitto), e minacciando il ricorso alle armi chimiche. Alla fine di febbraio, dopo quaranta giorni di bombardamenti, scattava l'offensiva di terra contro le forze irachene in Kuwait. Inferiore quanto a tecnologia bellica e privo della copertura aerea indispensabile in una guerra nel deserto, quello che era ritenuto uno degli eserciti più agguerriti e combattivi cedeva di schianto abbandonando precipitosamente il Kuwait occupato (non prima però di averne incendiato gli impianti petroliferi, con conseguenze gravissime sull'economia e sugli equilibri ecologici della regione) e lasciando in mano al nemico decine di migliaia di prigionieri. Ottenuto lo scopo principale, e ufficiale, dell'intervento (la liberazione del Kuwait), il presidente Bush decideva di arrestare l'offensiva della forza multinazionale, per evitare il rischio di complicazioni diplomatiche o di un coinvolgimento degli Usa in un conflitto di lunga durata. Saddam Hussein, contro tutte le previsioni, sopravviveva politicamente alla sconfitta, nonostante i tentativi di ribellione delle minoranze sciita e curda. Ma gli Stati Uniti risultavano ugualmente trionfatori, essendo riusciti a riscattare il proprio prestigio militare, ancora appannato dalla vicenda del Vietnam, e a imporsi come supremo garante degli equilibri mondiali.
Contando su questo accresciuto prestigio - e sulla parallela eclisse dell'influenza sovietica - gli Stati Uniti hanno cercato di profittare della situazione favorevole creatasi in seguito alla sconfitta irachena (e al conseguente indebolimento del fronte arabo radicale) per rilanciare il processo di pace in tutta l'area mediorientale. Si deve soprattutto agli sforzi di Bush e alla paziente mediazione del segretario di Stato americano James Baker, se, nell'ottobre del '91, è stata convocata a Madrid la prima sessione di una conferenza di pace sul Medio Oriente, in cui rappresentanti del governo israeliano hanno incontrato delegazioni dei paesi confinanti (che ancora, con l'eccezione dell'Egitto, non riconoscono lo Stato ebraico) e degli stessi palestinesi. Un primo passo per un processo di pace che si annuncia ancora lungo e difficile.
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