27.5 Il fascismo e la grande crisi: lo "Stato imprenditore"
L'economia italiana non si era ancora ripresa dalla cura deflazionistica, quando cominciarono a farsi sentire le conseguenze della grande crisi mondiale. Queste conseguenze furono meno drammatiche che in altri paesi europei, anche perché la politica economica adottata dopo il '25, accentuando l'orientamento della produzione verso il mercato interno, aveva in qualche modo anticipato gli effetti negativi della depressione. Ciò non toglie che la recessione si fece sentire pesantemente anche in Italia. Il commercio con l'estero si ridusse drasticamente (nel '33 il volume delle esportazioni era più che dimezzato rispetto al '29). L'agricoltura subì un nuovo duro colpo in tutti i suoi settori a causa del calo delle esportazioni e dell'ulteriore tracollo dei prezzi. Le imprese industriali, grandi e piccole, accusarono gravi difficoltà inducendo il governo a decretare un nuovo taglio dei salari (compensato però dalla contemporanea caduta dei prezzi). La disoccupazione nell'industria e nel commercio aumentò bruscamente, passando dalle 300.000 unità del '29 a 1.300.000 nel '33.
La risposta del regime alla crisi si attuò su due direttrici fondamentali: lo sviluppo dei lavori pubblici come strumento per rilanciare la produzione e attutire le tensioni sociali (e qui si può notare una certa analogia con le politiche messe in atto sia negli Stati Uniti di Roosevelt sia nella Germania di Hitler); l'intervento, diretto o indiretto, dello Stato a sostegno dei settori in crisi.
La politica dei lavori pubblici ebbe il suo maggiore sviluppo fra il '33 e il '34. Furono realizzate nuove strade e nuovi tronchi ferroviari, costruiti nuovi edifici pubblici dove il fascismo poté appagare il suo gusto per il monumentale. Fu varato il "risanamento" del centro storico della capitale, che provocò la distruzione di interi quartieri della vecchia Roma medioevale. Ma soprattutto fu avviato un gigantesco programma di bonifica integrale che avrebbe dovuto portare al recupero e alla valorizzazione delle terre incolte o mal coltivate. Il progetto di bonifica integrale, ostacolato sia dalle difficoltà della finanza pubblica sia dalle resistenze dei grandi proprietari, fu attuato solo parzialmente. Fu però portata a termine, nel giro di soli tre anni (dal '31 al '34), la sua parte più impegnativa e più spettacolare: la bonifica dell'Agro Pontino, un vasto territorio paludoso e malarico a Sud della capitale. In complesso furono recuperati alle colture circa 60.000 ettari. Furono creati 3000 nuovi poderi dove vennero insediati contadini provenienti dalle zone più depresse del Centro-nord (soprattutto dal Veneto); furono costruiti villaggi rurali e vere e proprie "città nuove" come Sabaudia e Littoria (l'odierna Latina). A prescindere dalla sua portata effettiva - che fu certamente notevole, anche se limitata nel tempo e nello spazio - la bonifica delle Paludi Pontine rappresentò per il fascismo un grosso successo propagandistico. Lo spettacolo delle grandi masse impegnate nei lavori di sistemazione del suolo o nella costruzione delle città nuove, adeguatamente amplificato dai mezzi di comunicazione, era indubbiamente lusinghiero per il regime (tanto più se accostato alle immagini di disoccupazione e di fame che arrivavano dal resto del mondo) e ne appagava la vocazione populista e ruralista.
Fu comunque nel settore dell'industria e del credito che l'intervento dello Stato assunse le forme più originali e incisive, sotto la spinta di una crisi che minacciava, se non affrontata in tempo, di provocare un collasso senza precedenti dell'intero sistema bancario. Colpite dalla crisi erano in particolare le grandi "banche miste" (Banca commerciale e Credito italiano) che, create alla fine dell'800 allo scopo di sostenere gli investimenti nell'industria (
20.3), si erano trovate a controllare quote azionarie sempre più consistenti di importanti gruppi industriali. La caduta della borsa che si verificò anche in Italia in coincidenza con la grande crisi mise in grave difficoltà le banche, le quali, per sostenere il corso dei titoli, effettuarono nuovi massicci acquisti, aggravando così la loro esposizione.
Per far fronte alla crisi e salvare le banche dal fallimento, il governo intervenne creando dapprima (1931) un istituto di credito pubblico (l'Imi, Istituto mobiliare italiano) col compito di sostituire le banche nel sostegno alle industrie in crisi e dando vita due anni dopo (1933) all'Istituto per la ricostruzione industriale (Iri), dotato di competenze eccezionalmente ampie. Valendosi di fondi forniti in gran parte dallo Stato, l'Iri divenne azionista di maggioranza delle banche in crisi e ne rilevò le partecipazioni industriali, acquistando così il controllo di alcune fra le maggiori imprese italiane (fra le altre l'Ansaldo, l'Ilva e la Terni). Nei progetti originari, il compito dell'Istituto avrebbe dovuto essere transitorio, limitandosi al risanamento delle imprese in crisi in vista di una loro "riprivatizzazione". Accadde invece che la riprivatizzazione risultò impraticabile (date le dimensioni delle imprese e i rischi connessi alla loro gestione) e l'Iri diventò, nel '37, un ente permanente.
In questo modo lo Stato italiano si trovò a controllare, sia pur indirettamente, una quota dell'apparato industriale e bancario superiore a quella di qualsiasi altro Stato (salvo naturalmente l'Urss): diventò cioè Stato-imprenditore oltre che Stato-banchiere. Ciò non significa che l'Italia si avviasse verso un sistema di economia statizzata, né che l'autonomia dell'insieme delle imprese capitalistiche fosse seriamente scalfita. Al contrario, i maggiori gruppi privati furono aiutati a rafforzarsi e a ingrandirsi e accolsero con favore l'intervento statale, che finiva con l'accollare alla collettività i costi della crisi industriale e bancaria. Ancor meno si può parlare di una fascistizzazione dell'economia, visto che per gli interventi più importanti Mussolini non si servì di personale proveniente dal partito o dalla nascente burocrazia "corporativa", ma si affidò piuttosto a tecnici "puri", come l'esperto di agraria Arrigo Serpieri, massimo artefice della bonifica integrale, o come Alberto Beneduce, fondatore e primo presidente dell'Iri. Nei nuovi enti parastatali e nella stessa Banca d'Italia (che nel 1926 ottenne il monopolio dell'emissione di moneta e vide i suoi poteri ulteriormente rafforzati da una riforma bancaria nel 1936) si formò così una "burocrazia parallela" destinata a svolgere un ruolo di primo piano nell'Italia postfascista.
Intorno alla metà degli anni '30, l'Italia era uscita dalla fase più acuta della crisi e - sia pure a prezzo di sacrifici non lievi a spese soprattutto delle classi popolari - ne era uscita prima e meglio rispetto alla maggior parte delle potenze industriali. A questo punto però mancò al regime la capacità e la volontà di profittare della ripresa per mettere in moto un processo di sviluppo che si riflettesse sulle condizioni di vita della popolazione. A partire dal '35, Mussolini si lanciò in una politica di dispendiose imprese militari che sottrasse risorse ai consumi e agli investimenti produttivi e accentuò l'isolamento economico del paese, senza nemmeno ottenere, tranne che per i settori interessati alle commesse belliche, quegli effetti positivi che il riarmo produsse sulla ben più forte struttura industriale della Germania nazista. Cominciava per l'Italia una lunga stagione di economia di guerra destinata a prolungarsi senza soluzione di continuità fino al secondo conflitto mondiale.
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