8. Società borghese e movimento operaio
8.1 La borghesia europea
Le rivoluzioni del '48-'49 si erano concluse con un totale fallimento. Nessuno degli esperimenti democratici aveva retto all'urto dell'ondata restauratrice. I vecchi sovrani erano tornati sui loro troni dappertutto, salvo che in Francia (dove però l'istituto monarchico era stato ripristinato sotto altra forma). Le istituzioni rappresentative erano state quasi ovunque cancellate o soffocate dal ritorno dei metodi assolutistici. Al clima di generale conservatorismo e alla sostanziale staticità delle strutture politiche, faceva però riscontro un processo di profondo mutamento della società: un processo che aveva per principali protagonisti i ceti borghesi, ma che coinvolgeva anche, sia pure più lentamente, le classi proletarie.
Nel ventennio successivo al 1848, la borghesia europea conobbe una stagione di crescita e di affermazione. Nonostante fosse ancora condizionata dalla persistenza delle vecchie gerarchie sociali e fosse pesantemente sacrificata nella distribuzione del potere (in quasi tutti i paesi europei le redini del governo restavano nelle mani di membri dell'aristocrazia), la borghesia riuscì in questo periodo a presentarsi come portatrice e depositaria degli elementi di novità e trasformazione (lo sviluppo economico, il progresso scientifico), a imporre un po' dappertutto la sua influenza e le sue idee-guida: il merito individuale, la libera iniziativa, la concorrenza, l'innovazione tecnica.
Chi erano, quanti erano, come vivevano e come pensavano i protagonisti di questa fase della storia europea che non a torto è stata definita come "età della borghesia"? Allora come oggi il termine "borghesia" serviva a definire una gamma molto ampia di figure e posizioni sociali. Si andava dagli artigiani e dai contadini-piccoli proprietari, la cui condizione, ai livelli inferiori, tendeva a confondersi con quella delle classi proletarie, ai grandi magnati dell'industria e della finanza, che aspiravano ad assumere i comportamenti esteriori tipici dell'aristocrazia e, dove ciò fosse possibile, a mescolarsi con essa. Fra questi due estremi si collocavano i gruppi e le categorie sociali che più propriamente si possono definire borghesi. Innanzitutto i ceti "emergenti", la cui fortuna era legata allo sviluppo dell'industria e dei mezzi di trasporto: imprenditori e dirigenti d'azienda, banchieri e grossi commercianti. Accanto a loro, la borghesia più tradizionale: quella che traeva i suoi proventi dalla terra, quella che esercitava le professioni (avvocati, medici, ingegneri) e quella che occupava i gradi medio-alti della burocrazia statale. Un gradino più in basso si situavano impiegati e insegnanti, piccoli commercianti e piccoli professionisti: insomma quell'area dai confini non ben definibili che già allora veniva indicata come ceto medio o piccola borghesia (p. 581). Nel complesso, la borghesia costituiva una fascia piuttosto ristretta della popolazione: in Gran Bretagna, intorno al 1870, i borghesi in senso lato non erano più del 20%; e la percentuale scendeva al 2% circa se si prendevano in considerazione solo gli strati urbani superiori (senza contare, dunque, il ceto medio e la borghesia agraria).
Nonostante la varietà delle sue componenti, la borghesia europea riusciva a esprimere una propria cultura e un proprio stile di vita, i cui tratti essenziali si possono ricondurre a un modello unitario. Uno stile di vita borghese è innanzitutto ravvisabile nelle manifestazioni esteriori. Ad esempio, nell'abbigliamento, cui uomini e donne delle classi superiori dedicavano allora molta cura e che rappresentava, assai più di quanto accade oggi, il principale segno distintivo di una condizione sociale. In Franeia, verso la metà del secolo, nel bilancio di una famiglia alto-borghese le spese per l'abbigliamento costituivano una quota non molto inferiore a quella per l'alimentazione e pari a quella destinata all'affitto della casa di abitazione (alimentazione e affitto assorbivano invece la quasi totalità delle entrate di una famiglia operaia).
Uguali cure erano destinate all'arredamento. Le abitazioni borghesi non avevano certo lo sfarzo e lo spreco di spazio delle dimore aristocratiche. Requisiti tipici della casa borghese erano piuttosto la solidità e la funzionalità. All'interno, però, l'abbondanza degli addobbi, dei quadri e dei soprammobili, l'attenzione al particolare e il gusto dell'ornato rivelavano l'esigenza di tradurre il successo e la ricchezza in simboli visibili e tangibili.
Nonostante questa esigenza - e nonostante le tendenze imitative dei valori aristocratici, che affioravano soprattutto negli strati superiori - i valori fondamentali dell'etica e della cultura borghese restavano quelli tradizionali. L'austerità, la moderazione, la propensione al risparmio, la capacità di reprimere gli istinti erano le virtù capitali per il borghese-tipo, quelle che gli permettevano di legittimare moralmente la propria posizione nella società. Questa componente moralistica e puritana si rifletteva in particolare nella struttura della famiglia: una struttura patriarcale non diversa nella sostanza da quella delle società preindustriali, basata quindi sull'autorità del capofamiglia e sulla subordinazione della donna.
Ci si può chiedere a questo punto come mai una società che riconosceva i valori della libertà e della concorrenza fra eguali poggiasse su un'istituzione che così radicalmente li negava; e come un rigorismo così intransigente in materia di morale familiare e sessuale potesse conciliarsi con l'ideale di moderazione e di giusto mezzo che tradizionalmente caratterizzava gli orizzonti culturali della borghesia. La contraddizione si può spiegare abbastanza agevolmente. Proprio perché credeva in una società aperta, dove nulla era garantito a priori, il borghese aveva bisogno di un retroterra sicuro, quale solo il tradizionale istituto familiare poteva fornirgli. Proprio perché viveva in un mondo dominato dalla competizione e rischiava continuamente di essere sostituito da altri più meritevoli di lui, doveva costruire e difendere un'immagine di rispettabilità (che non gli derivava, come agli aristocratici, dall'appartenenza a un ordine privilegiato) e doveva armarsi di quei saldi princìpi morali senza i quali la caduta sarebbe stata inevitabile.
Non tutti i borghesi praticavano scrupolosamente le virtù borghesi: le cronache della borghesia ottocentesca pullulano di speculatori disonesti e di avventurieri senza scrupoli. Ma l'idea secondo cui solo certe doti morali potevano garantire il mantenimento o il miglioramento delle posizioni acquisite era largamente accettata. Ne discendeva, come logica conseguenza, il luogo comune secondo cui chi occupava i gradini inferiori della scala sociale era colui che di quelle doti era sprovvisto. In altre parole, la povertà era un peccato o quanto meno il frutto di colpe ataviche. I poveri rimanevano poveri perché non conoscevano l'arte del risparmio e non erano in grado di dominare i bassi istinti. Così veniva spiegata, fra l'altro, la diffusione tra le classi subalterne della delinquenza, dell'alcolismo, della prostituzione. Al contrario, si pensava che chiunque possedesse accortezza, moderazione e capacità di sacrificio potesse raggiungere i traguardi più ambiziosi, in termini di ricchezza e di rispettabilità.
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