23.2 Le conseguenze economiche
Con la sola eccezione degli Stati Uniti, tutti i paesi belligeranti, non importa se vinti o vincitori, uscirono dal conflitto in condizioni di gravissimo dissesto economico. La guerra aveva inghiottito come in una voragine una quantità incredibile di risorse: in Italia, in Francia e in Germania le spese sostenute per il conflitto furono pari al doppio del prodotto nazionale lordo dell'ultimo anno di pace, in Gran Bretagna addirittura al triplo. Per far fronte a queste enormi spese, i governi erano ricorsi dapprima all'aumento delle tasse. Quindi avevano fatto appello al patriottismo dei risparmiatori lanciando sottoscrizioni e prestiti nazionali e allargando a dismisura il debito pubblico. Infine avevano contratto massicci debiti con i paesi amici, in primo luogo con gli Stati Uniti.
Né le tasse né i debiti interni né quelli esteri erano stati comunque sufficienti a coprire le spese di guerra. Così i governi avevano sopperito al fabbisogno di denaro stampando carta moneta in eccedenza e mettendo in moto un rapido processo inflazionistico. L'inflazione era allora un fenomeno pressoché sconosciuto per l'Europa occidentale, vissuta per più di un secolo in regime di prezzi relativamente stabili (fra il 1900 e il 1915 nei principali paesi europei l'aumento medio era stato inferiore all'1% annuo). Fra il 1915 e il 1918 i prezzi crebbero di tre volte e mezzo in Francia, di due volte e mezzo in Italia, di due volte in Gran Bretagna e in Germania. E nei primi due anni del dopoguerra la tendenza risultò ulteriormente accelerata, determinando un vero e proprio sconvolgimento nella distribuzione della ricchezza e nelle stesse gerarchie sociali.
Se la guerra aveva creato fortune improvvise soprattutto fra gli industriali e gli speculatori (i cosiddetti pescecani), l'inflazione distruggeva posizioni economiche solidissime (per esempio quelle di molti proprietari di terre o di case che riscuotevano canoni d'affitto svalutati) ed erodeva i risparmi dei ceti medi. In genere, gli operai dell'industria riuscirono a difendere le loro retribuzioni reali (misurate cioè in termini di potere d'acquisto) meglio degli impiegati e soprattutto dei dipendenti pubblici. Tutto ciò creava naturalmente tensioni diffuse e rendeva sempre più problematico il raggiungimento della pace sociale.
Alle prese con l'inflazione e con la minaccia del dissesto finanziario, i governi europei dovettero affrontare i complessi problemi legati al passaggio dall'economia di guerra a quella di pace. Quattro anni di interruzione delle usuali correnti di traffico avevano inferto un colpo durissimo alla tradizionale supremazia commerciale dell'Europa. Gli Stati Uniti e il Giappone avevano fortemente aumentato le esportazioni, sostituendosi agli europei sui mercati dell'Asia e del Sud America. Altri paesi, come l'Argentina e il Brasile, il Canada, il Sud Africa e l'Australia, avevano sviluppato una propria produzione industriale allentando la dipendenza dal vecchio continente. Ancora più grave, nell'immediato, era per Gran Bretagna e Francia la perdita di molti partner commerciali europei, economicamente stremati come la Germania, isolati come la Russia, smembrati, come l'Impero austro-ungarico, in tanti nuovi Stati (ciascuno con la sua moneta, il suo sistema di comunicazioni, i suoi dazi doganali). Invece della piena libertà degli scambi auspicata nel programma di Wilson, si ebbe nel dopoguerra una ripresa di nazionalismo economico e di protezionismo doganale, soprattutto da parte dei nuovi Stati che volevano sviluppare una propria industria.
Anche all'interno dei singoli paesi risultò impossibile un immediato ritorno all'economia di mercato. Per non aggravare le tensioni sociali e per venire incontro alle pressioni dei lavoratori organizzati, i governi dovettero mantenere per tempi più o meno lunghi il blocco sui prezzi dei generi di prima necessità e sui canoni d'affitto. D'altro canto il sostegno dei poteri pubblici era richiesto dagli industriali che dovevano affrontare la difficile riconversione alle attività di pace. Rimasero quindi in vita molti apparati burocratici (ministeri, sottosegretariati, commissariati) destinati ai compiti più diversi: dal controllo dei prezzi agli approvvigionamenti alimentari, dalle pensioni di guerra alla composizione delle vertenze di lavoro. Non si interruppe, anzi si rafforzò, la tendenza dei pubblici poteri a intervenire su materie un tempo riservate alla libera iniziativa delle parti sociali.
Grazie al sostegno dello Stato, accordato sotto forma di dazi protettivi, di facilitazioni creditizie, di nuove commesse per la ricostruzione civile e per le forze armate, l'industria europea riuscì in un primo tempo a mantenere o a incrementare i livelli produttivi degli anni di guerra. Ma questa espansione "artificiale", che si accompagnò a una stagione di intense lotte sociali, durò meno di due anni e fu seguita da una fase depressiva che, iniziata alla fine del 1920, provocò la crisi di molte imprese e un conseguente rapido aumento della disoccupazione.
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