21.5 La guerra nelle trincee
Due anni e mezzo di guerra non avevano dunque risolto la situazione di stallo creatasi nell'estate del '14, né avevano mutato i caratteri di un conflitto sempre più dominato dalla tremenda usura dei reparti combattenti. Un'usura dovuta soprattutto alla combinazione micidiale fra la vecchia dottrina militare, che imponeva ai soldati di cercare a ogni costo la rottura del fronte avversario (o la conquista di una determinata posizione), e le nuove armi automatiche, capaci di trasformare ogni assalto in un'autentica carneficina per gli attaccanti.
In realtà, dal punto di vista tecnico, la vera protagonista della guerra fu la trincea, ossia la più semplice e primitiva tra le fortificazioni difensive: un fossato scavato nel terreno per mettere i soldati al riparo dal fuoco nemico. Concepite all'inizio come rifugi provvisori per le truppe in attesa del balzo decisivo, le trincee divennero, una volta stabilizzatesi le posizioni, la sede permanente dei reparti di prima linea. In breve tutta la zona del fronte fu ricoperta da una fitta rete di fossati disposti su due o più linee (la linea più avanzata si trovava a volte a poche decine di metri da quella del nemico) e collegati fra loro per mezzo di camminamenti. Col passare del tempo le trincee furono allargate, dotate di ripari, protette da reticolati di filo spinato e da "nidi" di mitragliatrici, diventando sempre più difficilmente espugnabili.
La vita nelle trincee, monotona e rischiosa al tempo stesso, logorava i combattenti nel morale oltre che nel fisico e li gettava in uno stato di apatia e di torpore mentale. Soldati e ufficiali restavano in prima linea senza ricevere il cambio anche per intere settimane. Vivevano in condizioni igieniche deplorevoli, senza potersi lavare né cambiare. Erano esposti al caldo, al freddo e alle intemperie, oltre che ai periodici bombardamenti dell'artiglieria avversaria. Non uscivano dai loro ricoveri se non per compiere qualche pericolosa azione notturna di pattuglia o, quando scattava un'offensiva, per lanciarsi all'attacco delle trincee nemiche.
Gli assalti, che iniziavano di regola nelle prime ore del mattino, erano preceduti da un intenso tiro di artiglieria ("fuoco di preparazione") che in teoria avrebbe dovuto scompaginare le difese avversarie ma in pratica aveva come risultato principale quello di eliminare ogni effetto di sorpresa. I soldati che scattavano simultaneamente fuori delle trincee e riuscivano a superare il fuoco di sbarramento avversario finivano con l'accalcarsi nei pochi varchi aperti dall'artiglieria nei reticolati, facilitando così il compito dei tiratori nemici. Se, nonostante tutto ciò, riuscivano a raggiungere le trincee di prima linea, dovevano subire il contrattacco dei reparti di seconda linea e delle riserve, che in genere li ricacciava sulle posizioni di partenza.
Pochi mesi di guerra nelle trincee furono sufficienti a far svanire l'entusiasmo patriottico con cui molti combattenti - soprattutto i giovani di estrazione borghese - avevano affrontato il conflitto. Ma, mentre gli ufficiali di complemento (cioè quelli non di carriera, che ricoprivano i gradi inferiori), per quanto provati e disillusi, restarono nel complesso fedeli alle motivazioni ideali originarie, diverso fu l'atteggiamento della truppa. Gran parte dei soldati semplici - il discorso vale soprattutto per quelli di origine contadina che costituivano quasi ovunque il nerbo dei reparti di fanteria (molti operai erano rimasti in fabbrica per le esigenze della produzione bellica) - non aveva idee precise sui motivi per cui si combatteva la guerra e la considerava come una specie di flagello naturale da accettare con fatalistica sopportazione. La visione eroica e avventurosa della guerra restò prerogativa di alcune esigue minoranze di combattenti, per lo più organizzate in reparti speciali - come le "truppe d'assalto" (Sturmtruppen) tedesche o gli arditi italiani - impiegati solo in azioni particolarmente impegnative e rischiose. Per tutti gli altri la guerra era una dura necessità. I soldati la combattevano perché animati da un senso di elementare solidarietà con i propri compagni di reparto o con i propri superiori diretti (gli ufficiali inferiori che rischiavano la vita assieme alla truppa), ma anche perché vi erano costretti dalla presenza di un apparato repressivo spietato nel punire ogni forma di insubordinazione.
Né il senso del dovere né la minaccia del plotone di esecuzione poterono impedire, tuttavia, che la paura o l'avversione contro la guerra si traducessero talora in forme di autentico rifiuto. Le più diffuse erano quelle individuali, che andavano dalla renitenza alla leva alla diserzione (il caso più frequente era il mancato rientro dalle licenze), alla pratica dell'autolesionismo, consistente nell'infliggersi volontariamente ferite e mutilazioni per essere dispensati dal servizio al fronte. Meno frequenti erano i casi di ribellione collettiva - "scioperi militari" o veri e propri ammutinamenti - che si verificarono un po' dappertutto (più spesso negli eserciti dell'Intesa) e che crebbero in numero ed intensità col prolungarsi del conflitto, raggiungendo l'apice nel corso del 1917.
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