24.2 Cattolici, socialisti e fascisti
Furono i cattolici a portare il primo e più importante fattore di novità, abbandonando la tradizionale linea astensionistica e dando vita, nel gennaio 1919, a una nuova formazione politica che prese il nome di
Partito popolare italiano (Ppi). Il nuovo partito, che ebbe il suo padre riconosciuto e il suo primo segretario in don
Luigi Sturzo, si presentava con un programma di impostazione democratica e, pur ispirandosi apertamente alla dottrina cattolica, si dichiarava laico e aconfessionale. In realtà, il Ppi era strettamente legato al mondo cattolico e alle sue strutture organizzative. La sua stessa nascita era stata resa possibile dal nuovo atteggiamento assunto dopo la guerra dal papa e dalle gerarchie ecclesiastiche, preoccupati di opporre un argine alla minaccia socialista. Nelle file del partito erano inoltre confluiti, accanto agli eredi della democrazia cristiana (
20.9) e ai capi delle leghe bianche (spesso schierati su posizioni socialmente molto avanzate), anche gli esponenti delle correnti clerico-moderate che avevano guidato il movimento cattolico nell'anteguerra. Nonostante questi elementi contraddittori, la nascita del partito rappresentò una svolta in positivo per la democrazia italiana, la fine di un'anomalia che aveva accompagnato lo Stato unitario fin dalla nascita.
L'altra grande novità nel panorama politico italiano fu la crescita impetuosa del Partito socialista, i cui iscritti aumentarono rapidamente, fino a raggiungere, alla fine del '20, la cifra di 200.000. Schiacciante, nel partito, era la prevalenza della corrente di sinistra, ora chiamata massimalista, su quella riformista, che conservava però una posizione di forza nel gruppo parlamentare e nelle organizzazioni economiche. I massimalisti, che avevano il loro leader di maggior spicco nel direttore dell'"Avanti!" Giacinto Menotti Serrati, si ponevano come obiettivo immediato l'instaurazione della repubblica socialista fondata sulla dittatura del proletariato e si dichiaravano ammiratori entusiasti della rivoluzione bolscevica. In realtà i massimalisti italiani avevano ben poco in comune coi bolscevichi russi. Più che preparare la rivoluzione, la aspettavano, ritenendola comunque inevitabile. Più che guidare le masse alla conquista dello Stato, ne seguivano i movimenti, vedendovi i segni di una prossima presa del potere.
In polemica con questa impostazione, si formarono nel Psi gruppi di estrema sinistra, composti per lo più da giovani, che si battevano per un più coerente impegno rivoluzionario e per una più stretta adesione all'esempio dei comunisti russi. Fra questi gruppi emergevano quello napoletano che faceva capo ad Amadeo Bordiga e quello che operava a Torino attorno ad
Antonio Gramsci e alla rivista "L'Ordine Nuovo". Mentre Bordiga puntava soprattutto sulla creazione di un nuovo partito rivoluzionario ricalcato sul modello bolscevico, Gramsci e i suoi amici (Togliatti, Terracini, Tasca), che agivano a contatto coi nuclei operai più avanzati e combattivi d'Italia, erano affascinati dall'esperienza dei soviet, visti come strumenti di lotta contro l'ordine borghese e al tempo stesso come embrioni della società socialista.
All'indomani della guerra, il grosso del Partito socialista era dunque schierato su posizioni apertamente rivoluzionarie. Ma questa radicalizzazione finì con l'isolare il movimento operaio e col ridurne i margini di azione politica. Prospettando una soluzione "alla russa", i socialisti si preclusero ogni possibilità di collaborazione con le forze democratico-borghesi, spaventate dalla minaccia della dittatura proletaria. Insistendo nella condanna indiscriminata di tutto ciò che avesse a che fare col passato conflitto, e in genere nel rifiuto di ogni logica "nazionale", ferirono il patriottismo della piccola borghesia e fornirono argomenti all'oltranzismo nazionalista dei numerosi gruppi e gruppuscoli che si formarono nell'immediato dopoguerra con lo scopo di difendere i "valori della vittoria".
Fra questi movimenti, per lo più destinati a vita breve, faceva spicco quello fondato a Milano, il 23 marzo 1919, da
Benito Mussolini, col nome di
Fasci di combattimento. Politicamente, il nuovo movimento si schierava a sinistra, chiedeva audaci riforme sociali e si dichiarava favorevole alla repubblica; ma nel contempo ostentava un acceso nazionalismo e una feroce avversione nei confronti dei socialisti. Ai suoi esordi, il fascismo raccolse solo scarse ed eterogenee adesioni (ex repubblicani, ex sindacalisti rivoluzionari, ex arditi di guerra). Ma si fece subito notare per il suo stile politico aggressivo e violento, insofferente di vincoli ideologici e tutto teso verso l'azione diretta. Non a caso i fascisti furono protagonisti del primo grave episodio di guerra civile dell'Italia postbellica: lo scontro con un corteo socialista avvenuto a Milano il 15 aprile '19 e conclusosi con l'incendio della sede dell'"Avanti!". Era il primo segno di un clima di violenza e di intolleranza destinato ad aggravarsi col passare dei mesi, in conseguenza sia dell'inasprimento delle tensioni sociali, sia delle polemiche provocate dall'andamento della conferenza della pace.
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