36.2 Le trasformazioni sociali
Negli anni '50 e '60, in coincidenza col boom industriale, la società italiana subì una serie di profonde trasformazioni, che cambiarono il volto del paese e le abitudini dei suoi cittadini forse più di quanto non fosse avvenuto nei precedenti cent'anni di storia unitaria. Col miracolo economico, l'Italia si lasciò alle spalle le strutture e i valori della società contadina ed entrò nella civiltà dei consumi. Vi entrò disordinatamente, quasi di colpo, senza aver superato i suoi storici squilibri territoriali, che anzi nell'immediato apparvero aggravati.
Il fenomeno più importante e più vistoso di questi anni fu il massiccio esodo dal Sud verso il Nord e dalle campagne verso le città. Fra il '51 e il '61, circa due milioni di persone abbandonarono il Mezzogiorno. Nelle zone appenniniche del Centro-sud si assisté a un vero e proprio spopolamento. In tutto il paese il ceto dei coltivatori diretti e degli affittuari subì una drastica riduzione, mentre aumentavano la piccola borghesia urbana e la classe operaia. Sempre fra il '51 e il '61, la popolazione residente in città con più di 300.000 abitanti passò da 6.847.000 a 9.190.000 (ossia dal 14,5 al 18,2% del totale). La popolazione di Milano crebbe del 25%, quella di Roma del 30%, quella di Torino (sede della maggior industria nazionale, la Fiat) del 43%. La crescita delle città, anche di quelle non industriali, si accompagnò fra il '51 e il '63 a un fortissimo incremento dell'occupazione nei settori del commercio (+100%) e dell'edilizia (+84%), vere e proprie "spugne" dell'esodo rurale (nello stesso periodo, l'occupazione nell'industria manifatturiera aumentò solo del 40%).
Le grandi migrazioni interne e la rapida urbanizzazione erano indubbiamente il segno di un progresso economico del paese (anche perché fecero calare progressivamente l'emigrazione verso l'estero, ancora molto elevata per tutti gli anni '50), ma non furono prive di costi umani e sociali. L'espansione delle città avvenne spesso in forme caotiche, senza piani regolatori e senza un adeguato intervento dei poteri pubblici nel campo dell'edilizia popolare: ciò favorì la speculazione e il disordine urbano, con conseguenze pesanti non solo sulla struttura dei nuovi quartieri, ma sugli stessi centri storici. L'inserimento degli immigrati meridionali nelle grandi città industriali fu tutt'altro che indolore e, almeno in un primo tempo, mise in evidenza il divario - che non era solo economico, ma investiva anche i modi di vita e i modelli culturali - fra il Nord e il Sud del paese. Tuttavia, in quegli stessi anni, le differenze nei comportamenti sociali cominciarono ad attenuarsi: ebbe inizio un processo di integrazione legato alle comuni esperienze lavorative, ma favorito anche, per le generazioni più giovani, dalla scolarizzazione e, per l'insieme della popolazione, dalla diffusione di alcuni consumi di massa.
La televisione e l'automobile furono gli strumenti e i simboli principali di questo cambiamento. I primi apparecchi televisivi comparvero in Italia alla metà degli anni '50, con l'inizio di regolari trasmissioni da parte della Rai, l'ente di Stato che già deteneva il monopolio dell'emittenza radiofonica. Ma il boom della televisione cominciò alla fine del decennio, in significativa coincidenza con l'avvio del miracolo economico: nel 1955 c'erano 4 apparecchi ogni 1000 abitanti, nel '60 43, nel '65 117. La televisione non era solo l'ornamento del soggiorno e l'elemento aggregante delle riunioni familiari: era anche un veicolo attraverso cui passavano una lingua comune (la lingua nazionale, che solo in questi anni si affermò nell'uso parlato, a scapito dei dialetti) e nuovi modelli culturali di massa.
Se la televisione fu il maggiore strumento di unificazione linguistica e culturale dell'Italia del miracolo, l'automobile fu l'espressione principale di una supposta parificazione economica e sociale, il simbolo di una nuova indipendenza e di una nuova libertà di movimento. Anche il boom della motorizzazione privata cominciò alla fine degli anni '50 e coincise col grande successo delle nuove utilitarie prodotte dalla Fiat: la 600 e la 500. La produzione annuale di auto passò da 318.000 unità nel '57 a 1.100.000 del '63 (per l'80% costruite dalla Fiat). Dai 36 abitanti per automobile del '56 si passò ai 7,5 di dieci anni dopo. L'espansione dell'industria automobilistica nazionale fu anche incoraggiata dallo Stato, sia attraverso una politica fiscale che favoriva i modelli di piccola cilindrata, sia attraverso la costruzione di una grande rete autostradale che, progettata nel '55, sarebbe stata completata a metà degli anni '70.
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