14.2 Le concentrazioni e il capitalismo finanziario
Uno dei segni più vistosi della nuova stagione cominciata negli anni '70 fu il declino dei valori della libera concorrenza, che avevano largamente ispirato nel ventennio precedente le teorie degli economisti e le scelte dei governanti. Le nuove dimensioni assunte da un mercato internazionale dove diventava sempre più difficile farsi largo, le crescenti difficoltà create alle imprese dal regime di prezzi calanti, l'esigenza di aumentare continuamente gli investimenti spinsero gli imprenditori a cercare nuove soluzioni al di fuori dei canoni liberisti. Nacquero così le grandi consociazioni (Holdings) per il controllo finanziario di diverse imprese; i consorzi (cartelli o pools) fra aziende dello stesso settore che si accordavano sulla produzione e sui prezzi; le vere e proprie concentrazioni (trusts) fra imprese prima indipendenti. Le concentrazioni potevano essere orizzontali, se riguardavano aziende operanti nel medesimo settore produttivo, verticali se coinvolgevano imprese interessate alle diverse fasi della lavorazione di un prodotto: per esempio un'industria estrattiva, una siderurgica e una meccanica, come nel caso del grande complesso Krupp di Essen, in Germania, che impiegava, nel 1887, più di 20.000 addetti. Fenomeni di questo genere non erano nuovi nella storia del capitalismo industriale; ma ora assunsero dimensioni imponenti, soprattutto negli Stati Uniti e in Germania, fino a determinare in qualche caso un regime di monopolio. Negli Stati Uniti, già negli anni '80, un'unica compagnia, la Standard Oil di John Rockefeller, controllava il 90% della produzione petrolifera del paese. In Germania, nello stesso periodo, il settore elettrico era quasi interamente nelle mani del grande cartello Siemens-Aeg.
Un ruolo decisivo, in questi processi, fu svolto dalle istituzioni finanziarie. Solo le grandi banche - o addirittura i gruppi di banche consociate - potevano assicurare gli imponenti e costanti flussi finanziari necessari alla nascita e alla crescita dei colossi della siderurgia e della meccanica, della chimica e dell'elettricità, per i quali i profitti, per quanto elevati, non erano sufficienti a ricostituire il capitale di investimento. Fra banche e imprese si venne così a creare uno stretto rapporto di compenetrazione: le imprese dipendevano sempre più dalle banche per il loro sviluppo e le banche legavano in misura crescente le loro fortune a quelle delle imprese. Le banche controllavano quote rilevanti dei pacchetti azionari delle industrie, ma d'altro canto i magnati dell'industria sedevano spesso nei consigli di amministrazione delle banche. Questo intreccio fra industria e finanza - definito dagli economisti marxisti col nome di "capitalismo finanziario" - divenne il luogo primario di formazione della disponibilità di capitale, il centro motore dell'intero sistema economico.
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