20.6 Il giolittismo e i suoi critici
Se è ormai consuetudine parlare di "età giolittiana" per indicare il periodo che va dal superamento della crisi di fine secolo alla vigilia della prima guerra mondiale, ciò è dovuto al fatto che in questo periodo lo statista piemontese esercitò sulla vita del paese un'influenza ancora maggiore di quanto non dica la sua pur lunga permanenza alla guida del governo. Quella esercitata da Giolitti fu una "dittatura parlamentare" molto simile, per le forme in cui si manifestava, a quella realizzata da Depretis fra il 1876 e il 1887, anche se diversa, e decisamente più aperta, nei contenuti. Tratti caratteristici dell'azione di Giolitti furono infatti: il sostegno costante alle forze più moderne della società italiana (la borghesia industriale e il proletariato organizzato), il tentativo di condurre nell'orbita del sistema liberale gruppi e movimenti che fino a poco prima erano considerati (e in parte si consideravano) nemici delle istituzioni, la tendenza ad allargare l'intervento dello Stato per correggere gli squilibri sociali.
Questa linea politica si esplicava però - e qui stava il suo limite maggiore - in una dimensione liberal-parlamentare di stampo ancora sostanzialmente ottocentesco. Il controllo delle Camere - unito a una perfetta conoscenza della burocrazia statale - costituì l'elemento fondamentale del "sistema" di Giolitti. Grazie ad esso lo statista poté governare a lungo senza l'assillo di crisi ricorrenti e addirittura, come si è visto, abbandonare temporaneamente le redini del governo per riprenderle nel momento più opportuno. Il controllo del Parlamento era però ottenuto a prezzo della perpetuazione dei vecchi sistemi trasformistici, che furono affinati ed estesi, e di un intervento costante e spregiudicato del governo nelle lotte elettorali: intervento che si esercitava soprattutto nel Mezzogiorno, dove le ingerenze del potere esecutivo trovavano terreno favorevole in un ambiente dominato dalle lotte fra i notabili e caratterizzato dall'assenza quasi totale di organizzazioni politiche moderne. Tutto ciò finiva inevitabilmente col limitare gli aspetti più nuovi e progressivi dell'esperienza giolittiana e col contraddirne, almeno in parte, le stesse premesse.
Su questi aspetti deteriori si appuntarono ben presto le critiche dei numerosi avversari dello statista piemontese. Per i socialisti rivoluzionari e per i cattolici democratici Giolitti era colpevole di far opera di corruzione all'interno dei rispettivi movimenti, dividendoli e cooptandone le componenti moderate entro il suo sistema di potere trasformista. Per converso, i liberali-conservatori, come Sidney Sonnino o Luigi Albertini (direttore del "Corriere della Sera" di Milano, il più importante quotidiano italiano), accusavano Giolitti di attentare alle tradizioni risorgimentali, venendo a patti con i nemici delle istituzioni e mettendo così in pericolo l'autorità dello Stato. Al riformismo empirico di Giolitti, Sonnino contrappose - senza peraltro poterlo realizzare nelle sue brevissime esperienze di governo - un programma non privo di aperture sociali anche coraggiose, attento soprattutto ai problemi del Mezzogiorno e alla condizione delle classi rurali, ma concepito come iniziativa autonoma della classe dirigente liberale anziché come frutto di un patteggiamento con le forze "extracostituzionali". Diversamente motivate rispetto alle critiche di un Sonnino o di un Albertini, ma in parte coincidenti con esse, erano le accuse lanciate a Giolitti dai meridionalisti come Gaetano Salvemini. Per loro la denuncia del malcostume politico imperante nelle regioni del Sud (fu Salvemini a bollare Giolitti con l'epiteto ingiurioso di "ministro della malavita") si legava alla critica severa della politica economica governativa, che avrebbe favorito l'industria protetta e le "oligarchie operaie" del Nord (ma anche la grande proprietà terriera meridionale, tutelata dal dazio sul grano), ostacolando lo sviluppo delle migliori forze produttive nel Mezzogiorno.
Critiche come queste erano, se non del tutto infondate, certamente eccessive: e la critica storica più recente le ha largamente ridimensionate. Ma, negli anni della "dittatura" giolittiana, esse furono fatte proprie da molti intellettuali, ebbero ampia risonanza sulla stampa non governativa e influenzarono profondamente larghi settori dell'opinione pubblica borghese. Nonostante l'ampiezza delle maggioranze parlamentari che continuavano a sostenerlo, Giolitti dovette così fare i conti con una crescente impopolarità, sintomo di interna debolezza di tutto il sistema, oltre che di distacco fra classe dirigente e pubblica opinione. Questi sintomi di difficoltà, già delineatisi con la crisi economica del 1907, si fecero più evidenti dopo il 1911, in coincidenza con le vicende legate alla guerra di Libia. La decisione di impegnarsi nell'impresa coloniale è stata spesso interpretata in chiave di politica interna, come una concessione fatta ai gruppi conservatori per bilanciare gli effetti del suffragio universale e del monopolio delle assicurazioni. In realtà essa fu soprattutto l'atto finale di un lungo lavoro di preparazione diplomatica cominciato alla fine dell'800.
Torna all'indice